Lot Essay
"In De Dominicis una costante dell'opera è la pratica superficialista del linguaggio. Lo spazio non possiede o descrive profondità alcuna, si dà come puro supporto bidimensionale che non conosce sprofondamenti o inabissamenti. Questi semmai sono il portato di una condizione psicologica e fantastica che precede il lavoro, movimenti che assecondano l'apparizione dell'immagine. Il lavorio dell'arte penetra la patina spessa delle cose, sotto la falsa opulenza della materia, per svelarne l'energia che passa attraverso tutti i corpi e governa il dinamismo del mondo. Per questo è necessario togliere profondità all'immagine, e così assecondare il flusso che relaziona le cose tra loro accendendo linee di scorrimento e di continuità. Allora appare a tratti la leggerezze di un segno vagante e svuotato che coglie contemporaneamente la pelle e l'anima interna delle cose. Gli oggetti e le figure sono restituiti come sospesi e alleggeriti del loro peso, scritti secondo una nominazione visiva appena accennata" (A. Bonito Oliva in Gino De Dominicis. L'immortale, catalogo della mostra al MAXXI, Roma 2010, p. 20). Con quest'opera De Dominicis propone un'immagine evanescente, quasi impercettibile di una donna la cui fisionomia potrebbe far pensare a quella della Gioconda di Leonardo la quale "sembra affiorare, inafferrabile, da un passato remoto quanto la memoria o la traccia mistica di un'immagine onirica". Essa rappresenta "un punto limite in questa tattica sottile di sottrazione e nascondimenti" (F. Franco, Gino De Dominicis. L'immortale, catalogo della mostra al MAXXI, Roma 2010, p. 236)