Lot Essay
Nel 1939, alle soglie del conflitto mondiale, Giorgio de Chirico e la moglie Isabella lasciano l'Italia e tornano a Parigi "per non continuare a vivere in un Paese ove ogni sentimento d'umanità, di dignità, di civiltà, di coscienza e di pudore sembravano completamente banditi" (G. de Chirico, Memorie della mia vita, Roma 1945). Mentre i rapporti con l'Italia e la cultura di regime si fanno sempre più difficili, la fama internazionale dell'artista è ormai consolidata, i rapporti con gli Stati Uniti sono stabili e le sue opere vengono esposte con continuità e con un ruolo di primaria importanza in rassegne internazionali dedicate all'arte contemporanea come Art in Our Time, organizzata proprio nel 1939 dal Museum of Modern Art di New York per celebrare i dieci anni di attività del museo.
Il maestro è celebrato all'estero soprattutto per le sue opere metafisiche, rielaborate dal maestro anche nel corso degli anni Trenta. Il Trovatore è probabilmente una tra quelle che meglio rappresentano la ricerca dell'artista. Una figura isolata, antropomorfa ma priva di lineamenti e di braccia, è formata da una giustapposizione di elementi lignei colorati. Questa figura, che pare ornata da un mantello e retta da un sostegno anch'esso ligneo, si staglia su un cielo che, giallo in basso, sfuma gradatamente in un verde scuro. Due architetture appaiono: una torre di cui non si vede l'entrata e di cui non è chiara la funzione e una sorta di palazzo con un porticato e finestre aperte lungo muri inspiegabilmente inclinati. Come nelle altre opere metafisiche di de Chirico, le ombre lunghe descrivono un tardo pomeriggio vuoto e silenzioso. Non ci sono tracce di presenze umane e l'ombra che appare in basso a sinistra è quasi con certezza quella di una statua.
Le presenze e le assenze in questi dipinti sono misteriose e sottilmente inquietanti. Le ambiguità e gli elementi incomprensibili (come i titoli o le distorsioni prospettiche) risuonano profondamente nell'inconscio, tanto da aver trasformato le opere di de Chirico in icone dell'inquietudine metafisica. Secondo una definizione data da Giorgio de Chirico stesso, "l'opera d'arte metafisica è quanto all'aspetto serena; dà però l'impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e altri segni, oltre quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela." L'atmosfera tipica dei dipinti metafisici è dunque quella di sospensione, di attesa di un evento incombente e misterioso. Tutta la carriera artistica di Giorgio de Chirico è segnata dal ricorrere di questa ossessione metafisica; la presenza quotidiana degli oggetti è per lui sempre accompagnata da una dimensione inquietante. Ancora l'artista scrive infatti nel 1919: "si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente, che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l'altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza o di astrazione metafisica." Il ruolo dell'artista diventa per lui quello di vate, di oracolo: anche se la sua attività non rivela i misteri né chiarisce gli enigmi, partecipa però alla loro evocazione.
De Chirico propone quindi interrogativi senza soluzione e si abbandona all'enigma con un atteggiamento distaccato. I dipinti dell'artista presentano un assurdo palcoscenico su cui si svolge uno spettacolo con personaggi senza volto e senza espressione, uno spettacolo in cui l'espressione del sentimento personale è bandita (un'arte metafisica infatti ha senso solo se riesce a distaccarsi dall'individualità e dal trascorrere del tempo).
L'interesse dell'opera che presentiamo risiede anche nel suo essere molto vicina al prototipo della serie dei Trovatori (1917) di cui riprende molto da vicino l'impostazione generale e le architetture. Il manichino stesso è composto da un numero relativamente basso di elementi, come nel precoce esempio appea citato, al contrario di molti altri della fine degli anni Trenta, veri e propri trionfi "barocchi" in cui si accostano molti oggetti disparati.
Il ricorrere nell'opera di de Chirico degli stessi soggetti metafisici (Il Trovatore è uno di questi, accanto a Ettore e Andromaca, alle Piazze d'Italia ecc...) presentati con alcune varianti trova una precisa motivazione nella convinta adesione di de Chirico alla visione nietzscheana dell'"eterno ritorno del medesimo". Per de Chirico è legittimo, e anzi vera prova di modernità, riutilizzare gli elementi pittorici del passato e quindi -per estensione- anche le sue stesse composizioni.
"L'uomo è scomparso dal pianeta e la natura ha lasciato soltanto il proprio scheletro. Solitudini pesanti e sospese come un incubo fatale su oggetti morti. Pesci di rame dormono nei mari delle carte geografiche e manichini decapitati sono fissati in atteggiamenti estatici su grandi piazze pavimentate di legno. Castelli incantati fanno da scondo a scene terrificanti nella loro immanenza. Sul nostro pianeta non sono rimasti che alcuni biscotti e qualche ombra stagliata sulla luce del pavimento. Il ricordo dell'uomo è stato affidato a forme di manichini fissi in un silenzio spettrale mentre contemplano tavole nere coperte di calcoli di geometria descrittiva. Una luce cruda, secca, inesorabile illumina queste scene di desolazione. L'uomo se n'è andato ma ha lasciato tutto in ordine: la geometria ha trovato il suo impero. Sul mondo splende, grande motore, l'intelligenza e illumina un'atmosfera in cui tutto è silenzio, ordine e morte".
(C. Belli, 1935)
York, Milano 1991, p. 107)
Il maestro è celebrato all'estero soprattutto per le sue opere metafisiche, rielaborate dal maestro anche nel corso degli anni Trenta. Il Trovatore è probabilmente una tra quelle che meglio rappresentano la ricerca dell'artista. Una figura isolata, antropomorfa ma priva di lineamenti e di braccia, è formata da una giustapposizione di elementi lignei colorati. Questa figura, che pare ornata da un mantello e retta da un sostegno anch'esso ligneo, si staglia su un cielo che, giallo in basso, sfuma gradatamente in un verde scuro. Due architetture appaiono: una torre di cui non si vede l'entrata e di cui non è chiara la funzione e una sorta di palazzo con un porticato e finestre aperte lungo muri inspiegabilmente inclinati. Come nelle altre opere metafisiche di de Chirico, le ombre lunghe descrivono un tardo pomeriggio vuoto e silenzioso. Non ci sono tracce di presenze umane e l'ombra che appare in basso a sinistra è quasi con certezza quella di una statua.
Le presenze e le assenze in questi dipinti sono misteriose e sottilmente inquietanti. Le ambiguità e gli elementi incomprensibili (come i titoli o le distorsioni prospettiche) risuonano profondamente nell'inconscio, tanto da aver trasformato le opere di de Chirico in icone dell'inquietudine metafisica. Secondo una definizione data da Giorgio de Chirico stesso, "l'opera d'arte metafisica è quanto all'aspetto serena; dà però l'impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e altri segni, oltre quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela." L'atmosfera tipica dei dipinti metafisici è dunque quella di sospensione, di attesa di un evento incombente e misterioso. Tutta la carriera artistica di Giorgio de Chirico è segnata dal ricorrere di questa ossessione metafisica; la presenza quotidiana degli oggetti è per lui sempre accompagnata da una dimensione inquietante. Ancora l'artista scrive infatti nel 1919: "si può concludere che ogni cosa abbia due aspetti: uno corrente, che vediamo quasi sempre e che vedono gli uomini in generale, l'altro lo spettrale o metafisico che non possono vedere che rari individui in momenti di chiaroveggenza o di astrazione metafisica." Il ruolo dell'artista diventa per lui quello di vate, di oracolo: anche se la sua attività non rivela i misteri né chiarisce gli enigmi, partecipa però alla loro evocazione.
De Chirico propone quindi interrogativi senza soluzione e si abbandona all'enigma con un atteggiamento distaccato. I dipinti dell'artista presentano un assurdo palcoscenico su cui si svolge uno spettacolo con personaggi senza volto e senza espressione, uno spettacolo in cui l'espressione del sentimento personale è bandita (un'arte metafisica infatti ha senso solo se riesce a distaccarsi dall'individualità e dal trascorrere del tempo).
L'interesse dell'opera che presentiamo risiede anche nel suo essere molto vicina al prototipo della serie dei Trovatori (1917) di cui riprende molto da vicino l'impostazione generale e le architetture. Il manichino stesso è composto da un numero relativamente basso di elementi, come nel precoce esempio appea citato, al contrario di molti altri della fine degli anni Trenta, veri e propri trionfi "barocchi" in cui si accostano molti oggetti disparati.
Il ricorrere nell'opera di de Chirico degli stessi soggetti metafisici (Il Trovatore è uno di questi, accanto a Ettore e Andromaca, alle Piazze d'Italia ecc...) presentati con alcune varianti trova una precisa motivazione nella convinta adesione di de Chirico alla visione nietzscheana dell'"eterno ritorno del medesimo". Per de Chirico è legittimo, e anzi vera prova di modernità, riutilizzare gli elementi pittorici del passato e quindi -per estensione- anche le sue stesse composizioni.
"L'uomo è scomparso dal pianeta e la natura ha lasciato soltanto il proprio scheletro. Solitudini pesanti e sospese come un incubo fatale su oggetti morti. Pesci di rame dormono nei mari delle carte geografiche e manichini decapitati sono fissati in atteggiamenti estatici su grandi piazze pavimentate di legno. Castelli incantati fanno da scondo a scene terrificanti nella loro immanenza. Sul nostro pianeta non sono rimasti che alcuni biscotti e qualche ombra stagliata sulla luce del pavimento. Il ricordo dell'uomo è stato affidato a forme di manichini fissi in un silenzio spettrale mentre contemplano tavole nere coperte di calcoli di geometria descrittiva. Una luce cruda, secca, inesorabile illumina queste scene di desolazione. L'uomo se n'è andato ma ha lasciato tutto in ordine: la geometria ha trovato il suo impero. Sul mondo splende, grande motore, l'intelligenza e illumina un'atmosfera in cui tutto è silenzio, ordine e morte".
(C. Belli, 1935)
York, Milano 1991, p. 107)