Lot Essay
'L'opera d'arte metafisica è quanto all'aspetto serena; dà però l'impressione che qualcosa di nuovo debba accadere in quella stessa serenità e altri segni, oltre quelli già palesi, debbano subentrare sul quadrato della tela'.
Giorgio de Chirico
Il tema delle Muse inquietanti trova la sua origine in un dipinto eseguito nel 1916-17 e ceduto dall'artista a Giorgio Castelfranco. Il rifiuto di quest'ultimo di cederlo a sua volta, nonostante le ripetute insistenze di de Chirico, a Paul Eluard e alla moglie Gala è all'origine della prima delle repliche del dipinto. Nel 1924, infatti, la coppia incarica de Chirico di dipingere una seconda versione, che sarà completata e consegnata dall'artista nello stesso anno. Per riprendere le parole di James Thrall Soby, uno dei massimi studiosi dell'opera di Giorgio de Chirico: "forse più intensamente che in ogni altra opera della carriera di de Chirico, le Muse illustrano l'ambivalente, "metafisica" natura della sua arte dagli esordi. Il dipinto attrae e repelle, illude e spaventa, trasmette un'aura calda e nostalgica, ma allo stesso tempo suggerisce una catastrofe imminente. Non c'è azione; la piazza è immobile, le figure aspettano. Cosa succederà? Non c'è risposta, dato che questa pittura è l'esatto opposto di quei dipinti di banditi [in italiano nel testo] del XVII secolo in cui è prefigurato un finale disastroso. L'immagine di de Chirico -tutta la sua arte- si riferisce direttamente alla contro-logica del subconscio, a quelle zone paludose al margine della mente dove bianche estasi germogliano e le radici della paura sono profonde e scure come cipressi". (J. Th. Soby, Twentieth Century Italian Art, New York, 1949, pp. 20-21).
De Chirico propone interrogativi senza soluzione e si abbandona all'enigma con un atteggiamento distaccato. I dipinti dell'artista presentano un assurdo palcoscenico su cui si svolge uno spettacolo con personaggi senza volto e senza espressione, uno spettacolo in cui l'espressione del sentimento personale è esclusa.
Il tempo della storia e della quotidianità non hanno posto nei dipinti di de Chirico. Nelle sue tele metafisiche il tempo è immobile, immaginario, imprecisabile. Le idee artistiche vivono in eterno e il flusso degli eventi è solo un'illusione. Per questo motivo in un eccezionale dipinto metafisico come quello che presentiamo convivono monumenti rinascimentali (il Castello Estense di Ferrara), statue che potrebbero essere classiche, industrie, ciminiere, e solidi geometrici che potrebbero appartenere a qualsiasi epoca.
La mancanza di un orizzonte temporale preciso è una delle principali cause del senso di inquietudine e spaesamento che si prova di fronte ai dipinti di de Chirico. Oltre a questo, l'ambiguità delle coordinate spaziali, le fughe prospettiche vertiginose e soprattutto la natura delle figure (verrebbe da parlare di 'personaggi', ma il mondo delle Muse Inquietanti è disabitato e inanimato) e le relazioni che le legano tra loro contribuiscono al mistero di scene che restano enigmatiche.
Del resto, per de Chirico, la rivendicazione di originalità artistica è strettamente legata alla mancanza di soggetto e all'impossibilità di una interpretazione logica e priva di mistero: "Soprattutto, occorre liberare l'arte da tutto ciò che sino ai giorni nostri ha contenuto di risaputo: ogni soggetto, ogni idea, ogni pensiero ogni simbolo dev'essere messo da parte [...] Avere il coraggio di rinunciare a tutto il resto. Ecco cosa sarà l'artista del futuro, qualcuno che rinuncia tutti i giorni a qualcosa, qualcuno la cui personalità diviene ogni giorno più pura e più innocente. Perché anche senza seguire le tracce di un altro, finché si subisce un'influenza diretta di qualcosa che un altro sa anche lui, di qualcosa che si potrebbe leggere in un libro o incontrare in un museo, non si è artista creatore come l'intendo io. E quello che soprattutto ci vuole è una grande certezza di sé; occorre che la rivelazione che abbiamo avuto di un'opera d'arte, che la concezione di un quadro rappresenti una certa cosa che non ha senso per se stessa, che non ha soggetto, che dal punto di vista della logica umana non vuol dire assolutamente niente, occorre, dico, che una rivelazione del genere, o concezione, come volete, sia talmente forte in noi da procurarci una gioia o un dolore tali che ci sentiamo obbligati a dipingere, spinti da una forza più grande di quella che spinge l'affamato a mordere come una bestia il tozzo di pane che si ritrova sottomano". (G. de Chirico, cit. in Metafisica, cat. mostra Roma, Scuderie del Quirinale, 2003-2004, pp. 54-55)
Per il pittore metafisico il tempo della storia, assente all'interno del dipinto, è irrilevante per il processo creativo: solo le immagini contano, non l'ordine in cui si presentano alla mente degli artisti. Si chiarisce dunque il motivo per cui in de Chirico gli stessi temi si ripetano quasi ossessivamente. L'artista continua infatti a riflettere sulle sue intuizioni e nessuna contraddizione esiste nel riproporre gli stessi soggetti lungo tutto il corso della carriera.
L'opera che presentiamo rientra in questo filone autoreferenziale; de Chirico impersona in tutta la sua carriera una delle figure più emblematiche del suo immaginario, il 'ritornante', tornando a dipingere le stesse immagini e a meditare sui medesimi processi creativi. Come è stato notato, "il procedimento della replica è ciò che rivela in modo più evidente il fondamentale non-espressionismo di tutto il suo lavoro: in una dimensione espressionista, in cui ogni dipinto è legato a un singolo e irripetibile momento della storia personale, la replica sarebbe non solo impossibile ma anche eticamente riprovevole, mentre nella prospettiva di una pittura che pone i suoi segni al di fuori della corrente del tempo (altrimenti non avrebbe neppure senso parlare di metafisica) ogni ripresa diviene assolutamente lecita e assolutamente necessaria" (V. Rivosecchi, La riscoperta di se stesso. Il mito dell'Eterno ritorno, in de Chirico. Gli anni Trenta, Milano 1998, p. 111)
Per de Chirico le mode e le tendenze rappresentavano lusinghe fallaci; d'altra parte egli non avrebbe mai accettato di scartare un soggetto che gli appariva interessante perché 'sorpassato'. La pratica stessa di retrodatare alcuni dipinti, riutilizzata da altri a fini grettamente commerciali, per de Chirico rappresenta -per utilizzare un'espressione di Nietzsche, uno dei filosofi da lui più amati- una delle manifestazioni dell'eterno ritorno del medesimo.
Giorgio de Chirico
Il tema delle Muse inquietanti trova la sua origine in un dipinto eseguito nel 1916-17 e ceduto dall'artista a Giorgio Castelfranco. Il rifiuto di quest'ultimo di cederlo a sua volta, nonostante le ripetute insistenze di de Chirico, a Paul Eluard e alla moglie Gala è all'origine della prima delle repliche del dipinto. Nel 1924, infatti, la coppia incarica de Chirico di dipingere una seconda versione, che sarà completata e consegnata dall'artista nello stesso anno. Per riprendere le parole di James Thrall Soby, uno dei massimi studiosi dell'opera di Giorgio de Chirico: "forse più intensamente che in ogni altra opera della carriera di de Chirico, le Muse illustrano l'ambivalente, "metafisica" natura della sua arte dagli esordi. Il dipinto attrae e repelle, illude e spaventa, trasmette un'aura calda e nostalgica, ma allo stesso tempo suggerisce una catastrofe imminente. Non c'è azione; la piazza è immobile, le figure aspettano. Cosa succederà? Non c'è risposta, dato che questa pittura è l'esatto opposto di quei dipinti di banditi [in italiano nel testo] del XVII secolo in cui è prefigurato un finale disastroso. L'immagine di de Chirico -tutta la sua arte- si riferisce direttamente alla contro-logica del subconscio, a quelle zone paludose al margine della mente dove bianche estasi germogliano e le radici della paura sono profonde e scure come cipressi". (J. Th. Soby, Twentieth Century Italian Art, New York, 1949, pp. 20-21).
De Chirico propone interrogativi senza soluzione e si abbandona all'enigma con un atteggiamento distaccato. I dipinti dell'artista presentano un assurdo palcoscenico su cui si svolge uno spettacolo con personaggi senza volto e senza espressione, uno spettacolo in cui l'espressione del sentimento personale è esclusa.
Il tempo della storia e della quotidianità non hanno posto nei dipinti di de Chirico. Nelle sue tele metafisiche il tempo è immobile, immaginario, imprecisabile. Le idee artistiche vivono in eterno e il flusso degli eventi è solo un'illusione. Per questo motivo in un eccezionale dipinto metafisico come quello che presentiamo convivono monumenti rinascimentali (il Castello Estense di Ferrara), statue che potrebbero essere classiche, industrie, ciminiere, e solidi geometrici che potrebbero appartenere a qualsiasi epoca.
La mancanza di un orizzonte temporale preciso è una delle principali cause del senso di inquietudine e spaesamento che si prova di fronte ai dipinti di de Chirico. Oltre a questo, l'ambiguità delle coordinate spaziali, le fughe prospettiche vertiginose e soprattutto la natura delle figure (verrebbe da parlare di 'personaggi', ma il mondo delle Muse Inquietanti è disabitato e inanimato) e le relazioni che le legano tra loro contribuiscono al mistero di scene che restano enigmatiche.
Del resto, per de Chirico, la rivendicazione di originalità artistica è strettamente legata alla mancanza di soggetto e all'impossibilità di una interpretazione logica e priva di mistero: "Soprattutto, occorre liberare l'arte da tutto ciò che sino ai giorni nostri ha contenuto di risaputo: ogni soggetto, ogni idea, ogni pensiero ogni simbolo dev'essere messo da parte [...] Avere il coraggio di rinunciare a tutto il resto. Ecco cosa sarà l'artista del futuro, qualcuno che rinuncia tutti i giorni a qualcosa, qualcuno la cui personalità diviene ogni giorno più pura e più innocente. Perché anche senza seguire le tracce di un altro, finché si subisce un'influenza diretta di qualcosa che un altro sa anche lui, di qualcosa che si potrebbe leggere in un libro o incontrare in un museo, non si è artista creatore come l'intendo io. E quello che soprattutto ci vuole è una grande certezza di sé; occorre che la rivelazione che abbiamo avuto di un'opera d'arte, che la concezione di un quadro rappresenti una certa cosa che non ha senso per se stessa, che non ha soggetto, che dal punto di vista della logica umana non vuol dire assolutamente niente, occorre, dico, che una rivelazione del genere, o concezione, come volete, sia talmente forte in noi da procurarci una gioia o un dolore tali che ci sentiamo obbligati a dipingere, spinti da una forza più grande di quella che spinge l'affamato a mordere come una bestia il tozzo di pane che si ritrova sottomano". (G. de Chirico, cit. in Metafisica, cat. mostra Roma, Scuderie del Quirinale, 2003-2004, pp. 54-55)
Per il pittore metafisico il tempo della storia, assente all'interno del dipinto, è irrilevante per il processo creativo: solo le immagini contano, non l'ordine in cui si presentano alla mente degli artisti. Si chiarisce dunque il motivo per cui in de Chirico gli stessi temi si ripetano quasi ossessivamente. L'artista continua infatti a riflettere sulle sue intuizioni e nessuna contraddizione esiste nel riproporre gli stessi soggetti lungo tutto il corso della carriera.
L'opera che presentiamo rientra in questo filone autoreferenziale; de Chirico impersona in tutta la sua carriera una delle figure più emblematiche del suo immaginario, il 'ritornante', tornando a dipingere le stesse immagini e a meditare sui medesimi processi creativi. Come è stato notato, "il procedimento della replica è ciò che rivela in modo più evidente il fondamentale non-espressionismo di tutto il suo lavoro: in una dimensione espressionista, in cui ogni dipinto è legato a un singolo e irripetibile momento della storia personale, la replica sarebbe non solo impossibile ma anche eticamente riprovevole, mentre nella prospettiva di una pittura che pone i suoi segni al di fuori della corrente del tempo (altrimenti non avrebbe neppure senso parlare di metafisica) ogni ripresa diviene assolutamente lecita e assolutamente necessaria" (V. Rivosecchi, La riscoperta di se stesso. Il mito dell'Eterno ritorno, in de Chirico. Gli anni Trenta, Milano 1998, p. 111)
Per de Chirico le mode e le tendenze rappresentavano lusinghe fallaci; d'altra parte egli non avrebbe mai accettato di scartare un soggetto che gli appariva interessante perché 'sorpassato'. La pratica stessa di retrodatare alcuni dipinti, riutilizzata da altri a fini grettamente commerciali, per de Chirico rappresenta -per utilizzare un'espressione di Nietzsche, uno dei filosofi da lui più amati- una delle manifestazioni dell'eterno ritorno del medesimo.