Lot Essay
"Le strisce trasmettono una sensazione di forza, ma anche di difesa e protezione; sono un simbolo di sopravvivenza nei momenti fondamentali della vita"
"The strips transmit a sensation of strength, but also defence and protection; they are a symbol of conservation in the fundamental moments of life"
LUIGI SANSONE
Acquistato dall'attuale proprietario direttamente dall'artista, l’opera Croce di San Martino (1959) è un raro dittico appartenente alla serie iniziale di opere di Salvatore Scarpitta bendate o "avvolte". Nessun altro esemplare di questo genere – ossia composto da due tele – è inserito nel catalogo ragionato dell'artista, tanto da far sì che quest'opera venga considerata un lavoro straordinario all'interno della sua produzione. Scarpitta iniziò questo ciclo pionieristico a metà degli anni Cinquanta, utilizzando strisce di materiale che distendeva o intrecciava su supporti di tela per creare visioni grezze e quasi sculturali. Nella presente opera, le stratificazioni di pallido tessuto creano un gioco ipnotico di luci e ombre, che si disgiungono in vari punti per rivelare gli strati sottostanti così come le aperture scure e vuote. In entrambe le tele, le strisce di stoffa si tendono su uno scheletro a croce: un'allusione, forse, ai rimandi fisici e spirituali messi in campo dal titolo dell'opera. È una visione potente della fede di Scarpitta nel potere dell'arte di guarire, rinnovare e rigenerare dopo un trauma.
Scarpitta fu profondamente segnato dalla seconda guerra mondiale. Durante questo periodo aveva prestato servizio negli Stati Uniti, dov’era cresciuto, come "Monuments Man": aiutò a recuperare opere d'arte perdute, rubate e danneggiate durante il conflitto. Con la fine della guerra, presero il sopravvento le sue radici italiane e tornò a Roma, dove vi erano i sentori di una rivoluzione creativa. “C'era un'atmosfera di straordinaria energia", raccontava, "eravamo sopravvissuti, e la felicità e il desiderio di vivere erano così grandi che abbiamo creato una nuova arte" (S. Scarpitta, citato in L. Sansone, Salvatore Scarpitta: Catalogue Raisonné, Milano 2005, p. 60). Come molto artisti a lui coevi (si pensi ad Alberto Burri) giunse a capire quanto le tradizioni categorie artistiche fossero state rese obsolete dal conflitto: le differenze tra pittura e scultura, ad esempio, sembravano ormai arcaiche e avevano perso ogni rilevanza. Le opere bruciate di Burri, tra le altre i Sacchi e i Legni proponevano un'esistenza nuova e autoreferenziale per l'arte, che sembrava evocare al contempo struggenti immagini di ricostruzione e rinascita. Anche Scarpitta, allo stesso modo, era affascinato dall'idea della distruzione come momento catalizzatore della creazione: tra le macerie della società si celavano nuove, inesplorate modalità espressive.
Stimolato da questo spirito rigenerativo, l’artista fu protagonista di una svolta decisiva alla metà degli anni Cinquanta: cominciò a strappare i suoi quadri a olio, e a riordinarne i brandelli sulla tela. Sulla scia di questo gesto violento, affinò anche la sua visione: "Ho dovuto in qualche modo recuperare la materia perduta", spiegò, "così ho migliorato questa idea alquanto iconoclasta: la tela da uno stato fatiscente ha acquisito una condizione più "surreale", quasi astratta [...] non veniva più strappata bensì tirata" (S. Scarpitta, citato in ibid., p. 66). Scarpitta continuò a realizzare queste opere anche una volta tornato in America nel 1958, utilizzava strisce di fettucce acquistate nei negozi di articoli dell'esercito e le strofinava con pigmenti e resina prima di avvolgerle intorno alle sue tele per dar vita a formazioni astratte. Queste bende non solo richiamavano concetti legati alla guarigione e all’imbalsamazione, ma facevano riferimento anche ai panni usati per fasciare i neonati tanto che l'artista Piero Dorazio mise in relazione queste opere con la nascita di Lola, la figlia di Scarpitta. Nel lavoro Croce di San Martino, le nozioni di vita nuova, morte e resurrezione convivono in una duplice prospettiva intrisa di un'inquietante forza primordiale.
Acquired directly from the artist by the present owner, Croce di San Martino (1959) is a rare diptych from Salvatore Scarpitta’s seminal series of bandaged or ‘wrapped’ works. No other such example – comprising two canvases in this manner – is listed in the artist’s catalogue raisonné, marking this work out as an extraordinary example within his practice. Scarpitta began this pioneering cycle of during the mid-1950s, using strips of material which he stretched and entwined across canvas supports to create raw, near-sculptural visions. In the present work, layers of pale fabric create a mesmerising play of light and shadow, parting ways at various points to reveal underlying strata and dark, gaping apertures. In both canvases, the strips of cloth pull taut across a cross-shaped scaffold: an allusion, perhaps, to the physical and spiritual implications of the work’s title. It is a potent vision of Scarpitta’s belief in art’s power to heal, renew and rise again in the wake of trauma.
Scarpitta was deeply affected by the Second World War. During this period, he had served as a ‘Monuments Man’ in the United States – where he had been raised – helping to recover lost, stolen and damaged works of art. After the war’s end, he reconnected with his Italian heritage, returning to Rome where a sense of creative revolution hung in the air. ‘There was an atmosphere of extraordinary energy,’ he recalled, ‘we were survivors, and the happiness and desire to live were so great that we created a new art’ (S. Scarpitta, quoted in L. Sansone, Salvatore Scarpitta: Catalogue Raisonné, Milan 2005, p. 60). Like many of his contemporaries, including Alberto Burri, he came to believe that traditional artistic categories had been rendered obsolete by the conflict: the distinctions between painting and sculpture, for example, seemed archaic and irrelevant. Burri’s charred and fragmented Sacchi, Legni and other works proposed a new, self-referential existence for art – one that simultaneously seemed to conjure poignant images of repair and regrowth. Scarpitta, similarly, was fascinated by the idea of destruction as a catalyst for creation: that within the rubble of society lurked new, undiscovered modes of expression.
Buoyed by this regenerative spirit, Scarpitta made a decisive breakthrough during the mid-1950s: he began ripping up his own oil paintings, tearing them into shreds and rearranging them on canvas. In the wake of this violent gesture, he began to refine his vision: ‘I somehow had to recover the lost material,’ he explained, ‘so I polished this idea that was rather iconoclastic, and took the canvas from a dilapidated state to a more “surreal”, almost abstract condition … no longer ripped but pulled’ (S. Scarpitta, quoted in ibid., p. 66). Scarpitta continued these works in earnest after returning to America in 1958, using strips of webbing bought from army surplus stores and rubbing them in pigment and resin before wrapping them around his canvases in abstract formations. These bandages not only invoked images of healing and embalming, but also the cloths used to swaddle newborn babies – the artist Piero Dorazio relates these works to the birth of Scarpitta’s daughter Lola. In Croce di San Martino, notions of new life, death and resurrection are drawn together in a remarkable double vision, suffused with haunting elemental power.
"The strips transmit a sensation of strength, but also defence and protection; they are a symbol of conservation in the fundamental moments of life"
LUIGI SANSONE
Acquistato dall'attuale proprietario direttamente dall'artista, l’opera Croce di San Martino (1959) è un raro dittico appartenente alla serie iniziale di opere di Salvatore Scarpitta bendate o "avvolte". Nessun altro esemplare di questo genere – ossia composto da due tele – è inserito nel catalogo ragionato dell'artista, tanto da far sì che quest'opera venga considerata un lavoro straordinario all'interno della sua produzione. Scarpitta iniziò questo ciclo pionieristico a metà degli anni Cinquanta, utilizzando strisce di materiale che distendeva o intrecciava su supporti di tela per creare visioni grezze e quasi sculturali. Nella presente opera, le stratificazioni di pallido tessuto creano un gioco ipnotico di luci e ombre, che si disgiungono in vari punti per rivelare gli strati sottostanti così come le aperture scure e vuote. In entrambe le tele, le strisce di stoffa si tendono su uno scheletro a croce: un'allusione, forse, ai rimandi fisici e spirituali messi in campo dal titolo dell'opera. È una visione potente della fede di Scarpitta nel potere dell'arte di guarire, rinnovare e rigenerare dopo un trauma.
Scarpitta fu profondamente segnato dalla seconda guerra mondiale. Durante questo periodo aveva prestato servizio negli Stati Uniti, dov’era cresciuto, come "Monuments Man": aiutò a recuperare opere d'arte perdute, rubate e danneggiate durante il conflitto. Con la fine della guerra, presero il sopravvento le sue radici italiane e tornò a Roma, dove vi erano i sentori di una rivoluzione creativa. “C'era un'atmosfera di straordinaria energia", raccontava, "eravamo sopravvissuti, e la felicità e il desiderio di vivere erano così grandi che abbiamo creato una nuova arte" (S. Scarpitta, citato in L. Sansone, Salvatore Scarpitta: Catalogue Raisonné, Milano 2005, p. 60). Come molto artisti a lui coevi (si pensi ad Alberto Burri) giunse a capire quanto le tradizioni categorie artistiche fossero state rese obsolete dal conflitto: le differenze tra pittura e scultura, ad esempio, sembravano ormai arcaiche e avevano perso ogni rilevanza. Le opere bruciate di Burri, tra le altre i Sacchi e i Legni proponevano un'esistenza nuova e autoreferenziale per l'arte, che sembrava evocare al contempo struggenti immagini di ricostruzione e rinascita. Anche Scarpitta, allo stesso modo, era affascinato dall'idea della distruzione come momento catalizzatore della creazione: tra le macerie della società si celavano nuove, inesplorate modalità espressive.
Stimolato da questo spirito rigenerativo, l’artista fu protagonista di una svolta decisiva alla metà degli anni Cinquanta: cominciò a strappare i suoi quadri a olio, e a riordinarne i brandelli sulla tela. Sulla scia di questo gesto violento, affinò anche la sua visione: "Ho dovuto in qualche modo recuperare la materia perduta", spiegò, "così ho migliorato questa idea alquanto iconoclasta: la tela da uno stato fatiscente ha acquisito una condizione più "surreale", quasi astratta [...] non veniva più strappata bensì tirata" (S. Scarpitta, citato in ibid., p. 66). Scarpitta continuò a realizzare queste opere anche una volta tornato in America nel 1958, utilizzava strisce di fettucce acquistate nei negozi di articoli dell'esercito e le strofinava con pigmenti e resina prima di avvolgerle intorno alle sue tele per dar vita a formazioni astratte. Queste bende non solo richiamavano concetti legati alla guarigione e all’imbalsamazione, ma facevano riferimento anche ai panni usati per fasciare i neonati tanto che l'artista Piero Dorazio mise in relazione queste opere con la nascita di Lola, la figlia di Scarpitta. Nel lavoro Croce di San Martino, le nozioni di vita nuova, morte e resurrezione convivono in una duplice prospettiva intrisa di un'inquietante forza primordiale.
Acquired directly from the artist by the present owner, Croce di San Martino (1959) is a rare diptych from Salvatore Scarpitta’s seminal series of bandaged or ‘wrapped’ works. No other such example – comprising two canvases in this manner – is listed in the artist’s catalogue raisonné, marking this work out as an extraordinary example within his practice. Scarpitta began this pioneering cycle of during the mid-1950s, using strips of material which he stretched and entwined across canvas supports to create raw, near-sculptural visions. In the present work, layers of pale fabric create a mesmerising play of light and shadow, parting ways at various points to reveal underlying strata and dark, gaping apertures. In both canvases, the strips of cloth pull taut across a cross-shaped scaffold: an allusion, perhaps, to the physical and spiritual implications of the work’s title. It is a potent vision of Scarpitta’s belief in art’s power to heal, renew and rise again in the wake of trauma.
Scarpitta was deeply affected by the Second World War. During this period, he had served as a ‘Monuments Man’ in the United States – where he had been raised – helping to recover lost, stolen and damaged works of art. After the war’s end, he reconnected with his Italian heritage, returning to Rome where a sense of creative revolution hung in the air. ‘There was an atmosphere of extraordinary energy,’ he recalled, ‘we were survivors, and the happiness and desire to live were so great that we created a new art’ (S. Scarpitta, quoted in L. Sansone, Salvatore Scarpitta: Catalogue Raisonné, Milan 2005, p. 60). Like many of his contemporaries, including Alberto Burri, he came to believe that traditional artistic categories had been rendered obsolete by the conflict: the distinctions between painting and sculpture, for example, seemed archaic and irrelevant. Burri’s charred and fragmented Sacchi, Legni and other works proposed a new, self-referential existence for art – one that simultaneously seemed to conjure poignant images of repair and regrowth. Scarpitta, similarly, was fascinated by the idea of destruction as a catalyst for creation: that within the rubble of society lurked new, undiscovered modes of expression.
Buoyed by this regenerative spirit, Scarpitta made a decisive breakthrough during the mid-1950s: he began ripping up his own oil paintings, tearing them into shreds and rearranging them on canvas. In the wake of this violent gesture, he began to refine his vision: ‘I somehow had to recover the lost material,’ he explained, ‘so I polished this idea that was rather iconoclastic, and took the canvas from a dilapidated state to a more “surreal”, almost abstract condition … no longer ripped but pulled’ (S. Scarpitta, quoted in ibid., p. 66). Scarpitta continued these works in earnest after returning to America in 1958, using strips of webbing bought from army surplus stores and rubbing them in pigment and resin before wrapping them around his canvases in abstract formations. These bandages not only invoked images of healing and embalming, but also the cloths used to swaddle newborn babies – the artist Piero Dorazio relates these works to the birth of Scarpitta’s daughter Lola. In Croce di San Martino, notions of new life, death and resurrection are drawn together in a remarkable double vision, suffused with haunting elemental power.