拍品专文
Christie's è lieta di poter presentare un importante dipinto di Massimo Campigli posto in vendita per supportare le acquisizioni di uno dei più importanti -se non del più importante- museo di arte moderna e contemporanea, il Museum of Modern Art di New York. Questo museo vanta capolavori assoluti che vanno dalla Notte stellata di Van Gogh a Les Demoiselles d'Avignon di Picasso o, per restare in ambito italiano, da Nostalgia dell'infinito di de Chirico a Forme uniche nella continuità dello spazio di Boccioni.
L'opera, eseguita nel 1938 e presente in una mostra a New York l'anno successivo, è entrata dopo successive vicende nella collezione di Murray Graham per essere in seguito donata al Museum of Modern Art di New York che l'ha custodita per un cinquantennio.
Il dipinto, che testimonia la notorietà raggiunta da Campigli anche sul continente americano, si colloca in un periodo cruciale per Campigli. La seconda metà degli anni Trenta è infatti per l'artista un momento fondamentale dal punto di vista personale ed artistico. Proprio nel 1935 incontra la scultrice comasca Giuditta Scalini, che diventerà sua compagna inseparabile dopo il divorzio dalla prima moglie; allo stesso anno risale un suo soggiorno di alcuni mesi a New York. Nel 1936, sempre a New York, presenta una sua personale alla galleria Julien Levy. La collaborazione con la galleria non aveva carattere episodico, ma stabile: la mostra del 1936 è infatti la terza dopo quelle dell'autunno 1931 e del 1934 e sarà seguita da un'altra nel febbraio 1939, corrispondente a un ulteriore soggiorno negli Stati Uniti. Campigli era noto già da anni a Parigi, ma la statura e il riconoscimento internazionale documentati dalle esposizioni negli Stati Uniti sono confermati anche dall'incarico ricevuto nel 1937 per un affresco sul tema de I Costruttori nel Palazzo delle Nazioni a Ginevra, una tra le pochissime opere dell'artista che elegga a protagoniste esclusivamente figure maschili. A questi successi si affianca nello stesso periodo un amplissimo riconoscimento in patria che trova evidenza anzitutto in due importanti commissioni pubbliche: la decorazione del Palazzo di Giustizia di Milano, opera di Marcello Piacentini, e quella dell'atrio della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova. In tutti questi anni, tuttavia, la maggiore attenzione dell'artista continua ad essere rivolta alla pittura da cavalletto, con risultati straordinari tra i quali l'opera che presentiamo.
Campigli è uno dei maggiori rappresentanti europei del cosiddetto "Ritorno all'ordine", il movimento che, conclusasi la stagione delle avanguardie, propone negli anni Venti e Trenta il ritorno a una figurazione più temperata e tradizionale. Come molti altri protagonisti del "Ritorno all'ordine" (Picasso per primo), Campigli conosce perfettamente le proposte delle avanguardie e ne ha in parte condiviso le esperienze e il percorso. Corrispondente a Parigi del Corriere della Sera fin dal 1919, vive a Montparnasse e frequenta, anche prima della decisione di diventare pittore, l'ambiente artistico più avanzato dell'epoca.
Nel Cubismo pensa in un primo momento di individuare "qualche cosa in cui credere, la terraferma. Il cubismo si vantava di rivelare e seguire regole d'arte eterne, indiscutibili, scientifiche, intellettuali e fisiche, si appellava agli egizi, ai classici, agli ordinamenti del Rinascimento (che rivelazione per me dopo lo sciocchezzaio Futurista)!" (M. Campigli, Scrupoli, in M. Campigli. Mediterraneità e Modernità, cat. mostra Darmstadt 2003-2004, p. 96). Ben presto, però, si rende conto di condividere con le avanguardie solamente il primitivismo e l'aspirazione all'arcaismo, che vive tuttavia in modo completamente differente. Per gli artisti d'avanguardia del primo ventennio del Novecento, il richiamo alle forme primordiali è anzitutto una provocazione rivolta contro il realismo accademico, e l'obiettivo finale è la modernizzazione dell'arte, il suo svecchiamento. Campigli, al contrario, non vuole usare l'arte antica per rendere quella del notro tempo ancora più nuova e graffiante; egli avverte un richiamo irresistibile a immergersi nel passato per ritrovare i fondamenti di un'arte eterna. Campigli stesso sottolinea "quell'aria di museo che si respira nell'opera mia. È la più grave delle mie debolezze. I musei in genere, antichi s'intende, esercitano su di me un fascino enorme sin da quando ero bambino. Chissa cos'è. La solennità, l'immobilità, il sentirsi fuori dal tempo e dal mondo reale. Ma è meglio dire le cose con semplicità: io al museo mi innamoravo. Delle statue, soprattutto dei busti (anche perché ignoravo del tutto il mistero delle gambe)" (M. Campigli, scrupoli, in M. Campigli. Mediterraneità e Modernità, cat. mostra Darmstadt 2003-2004, p. 95). In questa riscoperta di un fondo primordiale le fonti di Campigli non sono più le maschere oceaniche e africane dei cubisti o le xilografie degli espressionisti. I suoi modelli sono prevalentemente mediterranei: anzitutto gli Etruschi, ma anche l'Egitto, l'arte micenea e minoica, il mosaico bizantino.
Questo omaggio all'antichità e al museo prende vita nel dipinto che presentiamo. La composizione, come nelle opere migliori dell'artista è equilibrata e semplificata, la scansione dello spazio semplice e vigorosa, paragonabile nella sua compostezza cerimoniale a un mosaico bizantino, nella sua chiarezza comunicativa alla pittura dell'antico Egitto. Campigli identificava tra i requisiti delle grandi opere d'arte del passato l'assenza di inutili complicazioni: qui le figure femminili suddividono in quattro zone equivalenti lo spazio della tela, ma la disposizione non è ripetitiva, è ritmica. Alla più alta figura sulla destra, in piedi, corrisponde un trittico di figure in cui quelle laterali incorniciano la centrale. Questa figura- la minore delle quattro- è nella sua incompletezza la più artisticamente significativa per il richiamo ai busti della statuaria di cui abbiamo appena sottolineato l'importanza per l'artista e per il riferimento alle figure di spalle nei dipinti giotteschi.
Il gesto, lento e quotidiano, delle donne che si pettinano assume una valenza quasi sacrale. Il dipinto offre a Campigli la possibilità di osservare un universo femminile che resta misterioso; le figure tranquille e assorte vengono fissate in un attimo eterno. L'immagine femminile rappresenta indubbiamente il tema centrale della pittura di Campigli, sia per la frequenza delle apparizioni sia per l'importanza che il pittore le attribuiva. In un intervista rilasciata a G. Favero nel 1969 Campigli dichiarava "Ho incominciato a dipingere delle donne e continuerò a dipingere delle donne. Niente altro che delle donne. Questo corrisponde, se voglio parlare solo di pittura, al fatto che la donna è il soggetto perfetto, che nell'arte del mondo intero ci sarà sempre la donna e l'uomo è assolutamente in secondo piano. E non potrei concepire altro" (cit. da N. Pallini, Massimo Campigli. Il tempo delle donne, Milano 2002, p. 9)
La femminilità, in questo come negli altri dipinti di Campigli, è presenza fisica e concreta, ma anche archetipo ideale. In tutte le culture arcaiche le figure femminili sono frequenti, e rappresentano anzitutto la fertilità. In Campigli il significato della fertilità in senso proprio è mantenuto, ma ad esso si affiancano, per estensione, quello di creazione come capacità generativa del pensiero e di fecondità come caratteristica dell'immaginazione. Le Veneri, Pomone, Gran Madri diventano, proprio nei titoli dei dipinti di Campigli, Idea e Archetipo. La figura primordiale della madre si associa a quella dell'amante desiderata, ma anche a quella della sorella complice e paziente.
Nei dipinti di Campigli, comunque, l'aspetto più rilevante è la qualità della pittura; di volta in volta ricca o asciutta, morbida o spartana, ma sempre irregolare, viva e vitale. I colori sono quelli delle terre e degli incarnati, sovrapposti e accostati liberamente. Proprio questa maestria pittorica, assieme all'eccezionalità della provenienza, distinguono questo dipinto e lo rendono un'occasione irripetibile per il collezionismo più raffinato.
L'opera, eseguita nel 1938 e presente in una mostra a New York l'anno successivo, è entrata dopo successive vicende nella collezione di Murray Graham per essere in seguito donata al Museum of Modern Art di New York che l'ha custodita per un cinquantennio.
Il dipinto, che testimonia la notorietà raggiunta da Campigli anche sul continente americano, si colloca in un periodo cruciale per Campigli. La seconda metà degli anni Trenta è infatti per l'artista un momento fondamentale dal punto di vista personale ed artistico. Proprio nel 1935 incontra la scultrice comasca Giuditta Scalini, che diventerà sua compagna inseparabile dopo il divorzio dalla prima moglie; allo stesso anno risale un suo soggiorno di alcuni mesi a New York. Nel 1936, sempre a New York, presenta una sua personale alla galleria Julien Levy. La collaborazione con la galleria non aveva carattere episodico, ma stabile: la mostra del 1936 è infatti la terza dopo quelle dell'autunno 1931 e del 1934 e sarà seguita da un'altra nel febbraio 1939, corrispondente a un ulteriore soggiorno negli Stati Uniti. Campigli era noto già da anni a Parigi, ma la statura e il riconoscimento internazionale documentati dalle esposizioni negli Stati Uniti sono confermati anche dall'incarico ricevuto nel 1937 per un affresco sul tema de I Costruttori nel Palazzo delle Nazioni a Ginevra, una tra le pochissime opere dell'artista che elegga a protagoniste esclusivamente figure maschili. A questi successi si affianca nello stesso periodo un amplissimo riconoscimento in patria che trova evidenza anzitutto in due importanti commissioni pubbliche: la decorazione del Palazzo di Giustizia di Milano, opera di Marcello Piacentini, e quella dell'atrio della facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova. In tutti questi anni, tuttavia, la maggiore attenzione dell'artista continua ad essere rivolta alla pittura da cavalletto, con risultati straordinari tra i quali l'opera che presentiamo.
Campigli è uno dei maggiori rappresentanti europei del cosiddetto "Ritorno all'ordine", il movimento che, conclusasi la stagione delle avanguardie, propone negli anni Venti e Trenta il ritorno a una figurazione più temperata e tradizionale. Come molti altri protagonisti del "Ritorno all'ordine" (Picasso per primo), Campigli conosce perfettamente le proposte delle avanguardie e ne ha in parte condiviso le esperienze e il percorso. Corrispondente a Parigi del Corriere della Sera fin dal 1919, vive a Montparnasse e frequenta, anche prima della decisione di diventare pittore, l'ambiente artistico più avanzato dell'epoca.
Nel Cubismo pensa in un primo momento di individuare "qualche cosa in cui credere, la terraferma. Il cubismo si vantava di rivelare e seguire regole d'arte eterne, indiscutibili, scientifiche, intellettuali e fisiche, si appellava agli egizi, ai classici, agli ordinamenti del Rinascimento (che rivelazione per me dopo lo sciocchezzaio Futurista)!" (M. Campigli, Scrupoli, in M. Campigli. Mediterraneità e Modernità, cat. mostra Darmstadt 2003-2004, p. 96). Ben presto, però, si rende conto di condividere con le avanguardie solamente il primitivismo e l'aspirazione all'arcaismo, che vive tuttavia in modo completamente differente. Per gli artisti d'avanguardia del primo ventennio del Novecento, il richiamo alle forme primordiali è anzitutto una provocazione rivolta contro il realismo accademico, e l'obiettivo finale è la modernizzazione dell'arte, il suo svecchiamento. Campigli, al contrario, non vuole usare l'arte antica per rendere quella del notro tempo ancora più nuova e graffiante; egli avverte un richiamo irresistibile a immergersi nel passato per ritrovare i fondamenti di un'arte eterna. Campigli stesso sottolinea "quell'aria di museo che si respira nell'opera mia. È la più grave delle mie debolezze. I musei in genere, antichi s'intende, esercitano su di me un fascino enorme sin da quando ero bambino. Chissa cos'è. La solennità, l'immobilità, il sentirsi fuori dal tempo e dal mondo reale. Ma è meglio dire le cose con semplicità: io al museo mi innamoravo. Delle statue, soprattutto dei busti (anche perché ignoravo del tutto il mistero delle gambe)" (M. Campigli, scrupoli, in M. Campigli. Mediterraneità e Modernità, cat. mostra Darmstadt 2003-2004, p. 95). In questa riscoperta di un fondo primordiale le fonti di Campigli non sono più le maschere oceaniche e africane dei cubisti o le xilografie degli espressionisti. I suoi modelli sono prevalentemente mediterranei: anzitutto gli Etruschi, ma anche l'Egitto, l'arte micenea e minoica, il mosaico bizantino.
Questo omaggio all'antichità e al museo prende vita nel dipinto che presentiamo. La composizione, come nelle opere migliori dell'artista è equilibrata e semplificata, la scansione dello spazio semplice e vigorosa, paragonabile nella sua compostezza cerimoniale a un mosaico bizantino, nella sua chiarezza comunicativa alla pittura dell'antico Egitto. Campigli identificava tra i requisiti delle grandi opere d'arte del passato l'assenza di inutili complicazioni: qui le figure femminili suddividono in quattro zone equivalenti lo spazio della tela, ma la disposizione non è ripetitiva, è ritmica. Alla più alta figura sulla destra, in piedi, corrisponde un trittico di figure in cui quelle laterali incorniciano la centrale. Questa figura- la minore delle quattro- è nella sua incompletezza la più artisticamente significativa per il richiamo ai busti della statuaria di cui abbiamo appena sottolineato l'importanza per l'artista e per il riferimento alle figure di spalle nei dipinti giotteschi.
Il gesto, lento e quotidiano, delle donne che si pettinano assume una valenza quasi sacrale. Il dipinto offre a Campigli la possibilità di osservare un universo femminile che resta misterioso; le figure tranquille e assorte vengono fissate in un attimo eterno. L'immagine femminile rappresenta indubbiamente il tema centrale della pittura di Campigli, sia per la frequenza delle apparizioni sia per l'importanza che il pittore le attribuiva. In un intervista rilasciata a G. Favero nel 1969 Campigli dichiarava "Ho incominciato a dipingere delle donne e continuerò a dipingere delle donne. Niente altro che delle donne. Questo corrisponde, se voglio parlare solo di pittura, al fatto che la donna è il soggetto perfetto, che nell'arte del mondo intero ci sarà sempre la donna e l'uomo è assolutamente in secondo piano. E non potrei concepire altro" (cit. da N. Pallini, Massimo Campigli. Il tempo delle donne, Milano 2002, p. 9)
La femminilità, in questo come negli altri dipinti di Campigli, è presenza fisica e concreta, ma anche archetipo ideale. In tutte le culture arcaiche le figure femminili sono frequenti, e rappresentano anzitutto la fertilità. In Campigli il significato della fertilità in senso proprio è mantenuto, ma ad esso si affiancano, per estensione, quello di creazione come capacità generativa del pensiero e di fecondità come caratteristica dell'immaginazione. Le Veneri, Pomone, Gran Madri diventano, proprio nei titoli dei dipinti di Campigli, Idea e Archetipo. La figura primordiale della madre si associa a quella dell'amante desiderata, ma anche a quella della sorella complice e paziente.
Nei dipinti di Campigli, comunque, l'aspetto più rilevante è la qualità della pittura; di volta in volta ricca o asciutta, morbida o spartana, ma sempre irregolare, viva e vitale. I colori sono quelli delle terre e degli incarnati, sovrapposti e accostati liberamente. Proprio questa maestria pittorica, assieme all'eccezionalità della provenienza, distinguono questo dipinto e lo rendono un'occasione irripetibile per il collezionismo più raffinato.