拍品专文
"Penso che sia illegittimo e pretenzioso voler deformare lo spazio in maniera definitiva e irreversibile, con la presunzione oltretutto di voler incidere nella realtà: si tratta nella migliore delle ipotesi di un'operazione inutile. Al massimo è lecito strutturarlo in modo da renderlo percettibile e sensorialmente fruibile; lo spazio in fondo ci interessa e ci preoccupa in quanto ci contiene.
Per questa operazione uso delle superfici monocrome, il più immateriali possibili, foggiate a doppia curvatura e ad elementi ripetuti: un succedersi di minimi interventi operativi. Esse sono costituite da una membrana piana della quale l'opera di formazione non altera le caratteristiche fisiche di elasticità e di continuità spaziale (al limite si può benissimo immaginare che cessando l'intervento formativo essa ritorni alla primitiva dimensione neutra). Alle strutture risultanti da questa operazione ne corrispondono altre uguali e contrarie e quindi annulantisi nell'economia di una totalità spaziale. Anche la realtà ha sempre un dritto e un rovescio che combaciando si negano a vicenda".
(E. Castellani, Lo spazio dell'immagine, Foligno 1967)
Nel 1946, da Buenos Aires, Lucio Fontana annuncia la morte della pittura nel senso tradizionale del termine, e plasma i confini di una nuova arte, che non è solo pennello, né solo mano.
Gli spazi non sono più solo contenitori, né le opere semplici contenuti; spazio e forma, interno ed esterno, si compenetrano, in un gioco di concavi e convessi.
Castellani ne coglie ben presto la lezione, realizzando nel 1959 la prima superficie in rilievo (Superficie nera); ben presto, però, si dedica al colore che più di tutti annulla e rende incerto, il bianco. Un colore che è una sorta di pre - colore, il colore del niente, del vuoto, ma anche del pieno assoluto, celestiale. L'unico colore che non filtra la luce, ma consente ad essa di manifestarsi in tutte le sue declinazioni. Del bianco, lui stesso dirà:
"Una superficie bianca, vuota è ciò che di più astratto si possa immaginare e di meno percepibile; quando ho iniziato questo mi sono preoccupato che i rilievi che andavo facendo fossero posti in modo da non creare aggregazioni. Ed allora, ad ogni punto, chiamalo in positivo, ne ho contrapposto uno in negativo; cioè c'è sempre un punto negativo ed uno positivo che si elidono in qualche modo e che permettono che la superficie rimanga poco violentata, diciamo" (E. Castellani, Enrico Castellani o la superficie ben temperata, 1980, in A. Zevi, Enrico Castellani, Ravenna 1984, p. 77)
I quadri non raccontano più niente; ingombrano, quasi, invece di invitarti ad entrare, ti spingono fuori, quasi ad abbracciarti, a coinvolgerti e a sconvolgerti, facendoti perdere il senso di ciò che è interno all'opera, e ci che è esterno alla stessa.
Le serie di chiodi ed estroflessioni si rincorre dando vita ad armonie sempre nuove, melodie di vuoti e pieni. I chiodi diventano note su un pentagramma sempre uguale, ma declinato in maniera diversa, che dai critici è stata a buon diritto etichettata come ripetizione differente; astri di una costellazione regolare ed armonica.
L'anno successivo alla realizzazione di questo importante lavoro, Donald Judd, nel Manifesto del Minimalismo, tributerà allo stesso Castellani (insieme a Yves Klein) il titolo di principale esponente di quella corrente artistica, fatta di togliere, di non dire, di deformare.
Niente gesti irripetibili, "ferite", alla tela, come in Fontana, questa volta, piuttosto piccole deformazioni che diventano esse stesse composizioni; Castellani non distrugge la tela, la mette alla prova portandola fino al parossismo della sua stessa elasticità, cristallizzandone le forme.
Per questa operazione uso delle superfici monocrome, il più immateriali possibili, foggiate a doppia curvatura e ad elementi ripetuti: un succedersi di minimi interventi operativi. Esse sono costituite da una membrana piana della quale l'opera di formazione non altera le caratteristiche fisiche di elasticità e di continuità spaziale (al limite si può benissimo immaginare che cessando l'intervento formativo essa ritorni alla primitiva dimensione neutra). Alle strutture risultanti da questa operazione ne corrispondono altre uguali e contrarie e quindi annulantisi nell'economia di una totalità spaziale. Anche la realtà ha sempre un dritto e un rovescio che combaciando si negano a vicenda".
(E. Castellani, Lo spazio dell'immagine, Foligno 1967)
Nel 1946, da Buenos Aires, Lucio Fontana annuncia la morte della pittura nel senso tradizionale del termine, e plasma i confini di una nuova arte, che non è solo pennello, né solo mano.
Gli spazi non sono più solo contenitori, né le opere semplici contenuti; spazio e forma, interno ed esterno, si compenetrano, in un gioco di concavi e convessi.
Castellani ne coglie ben presto la lezione, realizzando nel 1959 la prima superficie in rilievo (Superficie nera); ben presto, però, si dedica al colore che più di tutti annulla e rende incerto, il bianco. Un colore che è una sorta di pre - colore, il colore del niente, del vuoto, ma anche del pieno assoluto, celestiale. L'unico colore che non filtra la luce, ma consente ad essa di manifestarsi in tutte le sue declinazioni. Del bianco, lui stesso dirà:
"Una superficie bianca, vuota è ciò che di più astratto si possa immaginare e di meno percepibile; quando ho iniziato questo mi sono preoccupato che i rilievi che andavo facendo fossero posti in modo da non creare aggregazioni. Ed allora, ad ogni punto, chiamalo in positivo, ne ho contrapposto uno in negativo; cioè c'è sempre un punto negativo ed uno positivo che si elidono in qualche modo e che permettono che la superficie rimanga poco violentata, diciamo" (E. Castellani, Enrico Castellani o la superficie ben temperata, 1980, in A. Zevi, Enrico Castellani, Ravenna 1984, p. 77)
I quadri non raccontano più niente; ingombrano, quasi, invece di invitarti ad entrare, ti spingono fuori, quasi ad abbracciarti, a coinvolgerti e a sconvolgerti, facendoti perdere il senso di ciò che è interno all'opera, e ci che è esterno alla stessa.
Le serie di chiodi ed estroflessioni si rincorre dando vita ad armonie sempre nuove, melodie di vuoti e pieni. I chiodi diventano note su un pentagramma sempre uguale, ma declinato in maniera diversa, che dai critici è stata a buon diritto etichettata come ripetizione differente; astri di una costellazione regolare ed armonica.
L'anno successivo alla realizzazione di questo importante lavoro, Donald Judd, nel Manifesto del Minimalismo, tributerà allo stesso Castellani (insieme a Yves Klein) il titolo di principale esponente di quella corrente artistica, fatta di togliere, di non dire, di deformare.
Niente gesti irripetibili, "ferite", alla tela, come in Fontana, questa volta, piuttosto piccole deformazioni che diventano esse stesse composizioni; Castellani non distrugge la tela, la mette alla prova portandola fino al parossismo della sua stessa elasticità, cristallizzandone le forme.