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Il bisogno di assoluto che ci anima, nel proporci nuove tematiche, ci vieta i mezzi considerati propri al linguaggio pittorico; non avendo interesse ad eseprimere soggettive reazioni a fatti o sentimenti, ma volendo il nostro discorso essere continuo e totale escludiamo quei mezzi del linguaggio (composizione e colore) che sono sufficienti solo al discorso limitato, alla metafora e alla parabola, e che si rivelano gratuiti allorché si consideri che, sollecitando per la loro multiformità una scelta, pongono una problematica spuria e non essenziale allo sviluppo dell'arte
Enrico Castellani
Con le ricerche di Enrico Castellani e Lucio Fontana i dipinti perdono le caratteristiche ad essi associate per secoli. Anzitutto non sono più superfici che evocano uno spazio immaginato dall'artista (da questo punto di vista non c'è differenza, nelle opere ad essi precedenti, tra astrazione e figurazione), ma diventano esse stesse lo spazio dell'arte. La terza dimensione non è più soltanto evocata, ma diventa protagonista assoluta. Nelle opere di Lucio Fontana viene lasciata allo spazio la possibilità di fluire liberamente attraverso la tela; in quelle di Castellani è la tela stessa che si sporge e si ritrae per afferrare lo spazio, per catturare o rifiutare la luce dell'ambiente. Non si assiste più a una finzione, a una rappresentazione, ma alla presentazione diretta di uno spazio animato da logiche sue proprie. In anticipo sull'interpretazione 'letterale' che caratterizzerà la Minimal Art (secondo la quale un'opera d'arte è quello che è, senza che essa debba necessariamente rimandare a significati psicologici, simbolici e nemmeno a una narrazione o a un sistema di pensiero), le opere di Castellani sono quello che sono: la luce e lo spazio sono gli unici elementi compositivi, presi nella loro fisicità reale.
Le strade scelte da Fontana e Castellani si differenziano solo nella scelta del registro creativo. Mentre Fontana sceglie un approccio più fantasioso, Castellani si caratterizza per il rigore e la meditazione. Non a caso la ricerca di Fontana si riassume nel potere del gesto immediato, mentre quella di Castellani si concentra nella preparazione meticolosa e riflessiva. I due artisti sono dunque le polarità tra cui si muove questa ennesima stagione di vigore creativo dell'arte italiana che -ancora una volta- si dimostra capace di porsi all'avanguardia, aprendo nuovi orizzonti immaginativi anche per moltissimi artisti stranieri.
Castellani comincia a produrre le sue estroflessioni alla fine degli anni Cinquanta. Le più frequenti sono quelle in cui serie di chiodi variamente disposti determinano estroflessioni e introflessioni; molto più rare sono opere come queste in cui Castellani rinuncia all'uso dei chiodi e il movimento della tela viene ottenuto esclusivamente grazie alla complessa struttura del telaio. Eseguite all'inizio degli anni Sessanta, queste opere sono caratterizzate da grande sobrietà, eleganza lineare e purezza.
La rinuncia alla rappresentazione, alla prospettiva e ai rapporti tonali è compensata dalle infinite possibilità offerte dalle geometrie compositive. All'interno della singola opera le mutazioni continue di luce, ambiente e posizione dello spettatore presentano l'opera sotto aspetti sempre nuovi, andando così incontro alle contemporanee teorizzazioni sull'opera aperta. Nel dittico che presentiamo, di provenienza museale, la struttura compositiva è semplicissima: ognuno dei due pannelli presenta dei rilievi rettilinei a destra e a sinistra. L'opera è tutta costruita intorno al rapporto tra linee rette e volumi leggermente curvati. Questi volumi appaiono appena delineati dal gioco delle luci e delle ombre che raggiunge il culmine al centro dell'opera, dove due concavità segnano il punto in cui l'ombra è più profonda.
Castellani si lega a una severa monocromia che sostituisce toni, rapporti cromatici, contrasti. In questa scelta Castellani non è solo: dalla fine degli anni Cinquanta molti artisti italiani cominciano una stagione di sperimentazione sul monocromo anche se con intenzioni artistiche molto differenti tra loro. Oltre a Castellani, le soluzioni più rigorose vengono adottate da Fontana, Manzoni, Bonalumi, che ad esse si attengono strettamente; altri, come Burri, Schifano, Dorazio sperimentano soluzioni monocromatiche pur mantenendo aperte anche altre direzioni di ricerca. Quindi, anche senza senza contare gli esempi stranieri (Yves Klein anzitutto, ma anche Frank Stella, Ad Reinhardt, Agnes Martin e molti altri) l'indagine sullle possibilità del monocromo coinvolge in Italia tutti gli artisti più avanzati e sensibili.
La concentrazione su pochissimi elementi, i vincoli volontariamente assunti diventano per Castellani una scelta non negoziabile. L'economia nei mezzi utilizzati si risolve in una efficacia espressiva molto maggiore. Qualunque altro elemento introdotto, qualunque complicazione avrebbe violato l'equilibrio così puro raggiunto da quest'opera, che rappresenta uno dei migliori risultati nella produzione artistica degli anni Sessanta italiani.
Enrico Castellani
Con le ricerche di Enrico Castellani e Lucio Fontana i dipinti perdono le caratteristiche ad essi associate per secoli. Anzitutto non sono più superfici che evocano uno spazio immaginato dall'artista (da questo punto di vista non c'è differenza, nelle opere ad essi precedenti, tra astrazione e figurazione), ma diventano esse stesse lo spazio dell'arte. La terza dimensione non è più soltanto evocata, ma diventa protagonista assoluta. Nelle opere di Lucio Fontana viene lasciata allo spazio la possibilità di fluire liberamente attraverso la tela; in quelle di Castellani è la tela stessa che si sporge e si ritrae per afferrare lo spazio, per catturare o rifiutare la luce dell'ambiente. Non si assiste più a una finzione, a una rappresentazione, ma alla presentazione diretta di uno spazio animato da logiche sue proprie. In anticipo sull'interpretazione 'letterale' che caratterizzerà la Minimal Art (secondo la quale un'opera d'arte è quello che è, senza che essa debba necessariamente rimandare a significati psicologici, simbolici e nemmeno a una narrazione o a un sistema di pensiero), le opere di Castellani sono quello che sono: la luce e lo spazio sono gli unici elementi compositivi, presi nella loro fisicità reale.
Le strade scelte da Fontana e Castellani si differenziano solo nella scelta del registro creativo. Mentre Fontana sceglie un approccio più fantasioso, Castellani si caratterizza per il rigore e la meditazione. Non a caso la ricerca di Fontana si riassume nel potere del gesto immediato, mentre quella di Castellani si concentra nella preparazione meticolosa e riflessiva. I due artisti sono dunque le polarità tra cui si muove questa ennesima stagione di vigore creativo dell'arte italiana che -ancora una volta- si dimostra capace di porsi all'avanguardia, aprendo nuovi orizzonti immaginativi anche per moltissimi artisti stranieri.
Castellani comincia a produrre le sue estroflessioni alla fine degli anni Cinquanta. Le più frequenti sono quelle in cui serie di chiodi variamente disposti determinano estroflessioni e introflessioni; molto più rare sono opere come queste in cui Castellani rinuncia all'uso dei chiodi e il movimento della tela viene ottenuto esclusivamente grazie alla complessa struttura del telaio. Eseguite all'inizio degli anni Sessanta, queste opere sono caratterizzate da grande sobrietà, eleganza lineare e purezza.
La rinuncia alla rappresentazione, alla prospettiva e ai rapporti tonali è compensata dalle infinite possibilità offerte dalle geometrie compositive. All'interno della singola opera le mutazioni continue di luce, ambiente e posizione dello spettatore presentano l'opera sotto aspetti sempre nuovi, andando così incontro alle contemporanee teorizzazioni sull'opera aperta. Nel dittico che presentiamo, di provenienza museale, la struttura compositiva è semplicissima: ognuno dei due pannelli presenta dei rilievi rettilinei a destra e a sinistra. L'opera è tutta costruita intorno al rapporto tra linee rette e volumi leggermente curvati. Questi volumi appaiono appena delineati dal gioco delle luci e delle ombre che raggiunge il culmine al centro dell'opera, dove due concavità segnano il punto in cui l'ombra è più profonda.
Castellani si lega a una severa monocromia che sostituisce toni, rapporti cromatici, contrasti. In questa scelta Castellani non è solo: dalla fine degli anni Cinquanta molti artisti italiani cominciano una stagione di sperimentazione sul monocromo anche se con intenzioni artistiche molto differenti tra loro. Oltre a Castellani, le soluzioni più rigorose vengono adottate da Fontana, Manzoni, Bonalumi, che ad esse si attengono strettamente; altri, come Burri, Schifano, Dorazio sperimentano soluzioni monocromatiche pur mantenendo aperte anche altre direzioni di ricerca. Quindi, anche senza senza contare gli esempi stranieri (Yves Klein anzitutto, ma anche Frank Stella, Ad Reinhardt, Agnes Martin e molti altri) l'indagine sullle possibilità del monocromo coinvolge in Italia tutti gli artisti più avanzati e sensibili.
La concentrazione su pochissimi elementi, i vincoli volontariamente assunti diventano per Castellani una scelta non negoziabile. L'economia nei mezzi utilizzati si risolve in una efficacia espressiva molto maggiore. Qualunque altro elemento introdotto, qualunque complicazione avrebbe violato l'equilibrio così puro raggiunto da quest'opera, che rappresenta uno dei migliori risultati nella produzione artistica degli anni Sessanta italiani.