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L'opera Achrome di Piero Manzoni, autocreata, autoriflessiva e senza colore, appartiene alle prime serie dell'artista, omonime, che ebbero un carattere seminale nella definizione della sua carriera. Mai presentato ad un'asta, questo lavoro fu esposto nella memorabile retrospettiva milanese dedicata all'artista nel 2014: esso incarna l'accattivante purezza e la monumentalità di questo gruppo di opere rivoluzionarie e di grande influenza. Al pari di effimere increspature d'acqua, ventose perturbazioni di neve o pieghe di un foglio, la delicata struttura esiste solo in quanto tale; la superficie ricoperta di caolino è completamente avulsa da ogni qualsivoglia volontà narrativa, figurativa o connessa ad aspetti mimetici.
In questo modo Manzoni diede seguito agli sviluppi pioneristici di Lucio Fontana e di Alberto Burri; creò una forma d'arte radicalmente nuova che era elegante, enigmatica e, al tempo stesso, giocosamente iconoclasta. Capovolgendo le concezioni e le convenzioni tradizionali della pittura, con i suoi Achromes riportò l'arte ad una 'tabula rasa', purificandola e riconducendola alla condizione di ricettacolo aperto, liberato dalla rappresentazione, dalla narrativa e dall'ego dell'artista, in attesa di attivare il pensiero e l'immaginazione del fruitore: 'L'immagine è la nostra idea di libertà', scrisse Manzoni nel 1957, 'nel suo spazio abbiamo intrapreso un viaggio di scoperta e di creazione' (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, citato in M. Gale & R. Miracco, catalogo della mostra, Beyond Painting: Burri. Fontana, Manzoni, Londra, Tate Gallery, 2005-2006, p. 40).
Manzoni fu uno dei più grandi pionieri e provocatori della Milano post-bellica, dove viveva e lavorava, e dove creò il suo primo Achrome nel 1957, un anno prima della probabile realizzazione di questo lavoro. Dopo un'iniziale sperimentazione con il gesso, diede vita a una serie di dipinti nei quali graffiava o segnava l'intonaco bianco; questo lo condusse, nell'autunno dello stesso anno, a concepire gli Achromes. In principio bagnava pezzi di tela nel caolino – una sorta di tenera argilla – che, una volta lasciata asciugare, consentiva di ottenere con il minimo intervento la naturale formazione di spessori, increspature e pieghe. Sotto diversi punti di vista, questa espressione artistica nacque osservando il lavoro di Burri, pioneristico padrino dell'arte italiana del Dopoguerra. Con i suoi Sacchi Burri reinterpretò le componenti strutturali della pittura – la superficie di juta –, tanto che quest'ultima divenne il soggetto stesso del suo lavoro.
Qualcosa di assimilabile avviene in quest'opera di Manzoni, nella quale l'artista usa la base anatomica di un dipinto – la tela – presentandola come la sola componente fisica e visuale dell'opera, e prescindendo tutte le altre modalità di rappresentazione. In questo modo raggiunse il suo obiettivo artistico e concettuale, come egli stesso afferma: 'la vera domanda, per quanto mi riguarda, è quella di rendere una superficie completamente bianca (integralmente senza colore e neutrale) al di là di ogni fenomeno o intervento pittorico estraneo al valore della superficie. Un bianco che non sia un paesaggio polare, non un materiale in evoluzione o un materiale fantastico, non una sensazione, non un simbolo, niente di tutto ciò: solo una superficie bianca che è semplicemente una superficie bianca e nient'altro (una superficie senza colore che è solo una superficie senza colore). Ancor meglio: una superficie che semplicemente esiste: l'essere (essere completa e diventare pura)'. (Manzoni, ‘Free Dimension’, Azimuth, n. 2, Milano, 1960, in Piero Manzoni. Paintings, Reliefs & Objects, catalogo della mostra, Londra, Tate Gallery, 1974, pp. 46-47).
In Achrome Manzoni prende spunto dal realismo materico di Burri e lo porta avanti rimuovendo interamente l'intervento della mano creatrice dell'artista nella realizzazione dell'opera, promuovendo il concetto di automatismo e non quello di pura casualità. Le pieghe delicate, talvolta sensuali, che fluiscono orizzontalmente con eleganza sulla superficie della tela si formano in autonomia; anche la colorazione non è dovuta all'intervento dell'artista: si tratta della tonalità intrinseca dell'intonaco. Nel cimentarsi in questa serie Manzoni guardava oltre la materialità delle opere di Burri, così come al di là del concettualismo austero e trascendente dei lavori monocromi di Fontana o Yves Klein; era mosso dalla volontà di esplorare l'idea di uno spazio liberato da ogni qualsivoglia figura, colore, segno o materiale. In questo modo creò 'immagini che sono tanto assolute quanto possibili, che non possono essere valutate per quello che esprimono, spiegano ed esplicitano, ma solo per quello che sono: il loro essere' (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, nel catalogo della mostra, Piero Manzoni: Paintings, reliefs & objects, Londra, Tate Gallery, 1974, p. 17).
Self-forming, self-reflexive and colourless, Piero Manzoni’s Achrome is one of the earliest works in the artist’s seminal and career-defining series of the same name. Never before seen at auction, and a focus piece in the landmark 2014 retrospective of the artist held in Milan, Achrome (1958 ca.) embodies the captivating purity and monumentality of this group of radical and highly influential works. Like ephemeral ripples of water, windswept undulations of snow, or the folds of a sheet, the softly textured, kaolin covered surface is entirely expunged of any narrative, representational, or mimetic aspects, existing solely as it is. In this way, Manzoni succeeded in furthering the pioneering developments of both Lucio Fontana and Alberto Burri to offer a radically new form of art that was at once elegant and enigmatic, while at the same time, playfully iconoclastic. Overturning the staid, traditional conventions and conceptions of painting, with the Achromes, Manzoni returned art to a ‘tabula rasa’, purifying art to an open receptacle, liberated from representation, narrative and the ego of the artist, waiting instead to be activated by the mind and imagination of the viewer: ‘The picture is our idea of freedom’, Manzoni wrote in 1957, ‘in its space we set out on a journey of discovery and creation of images’ (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, quoted in M. Gale & R. Miracco, exh. cat., Beyond Painting: Burri. Fontana, Manzoni, London, Tate Gallery, 2005-2006, p. 40).
One of the great pioneers and provocateurs living and working in post-war Milan, Manzoni made his first Achrome in 1957, just a year before he is thought to have executed the present work. Experimenting first with the use of gesso, Manzoni had begun a series of paintings in which he scratched or marked the white plaster, leading him, in the autumn of this year, to conceive the Achromes. At first the artist soaked pieces of canvas in kaolin – a soft form of clay – which, when left to set, with the most minimal of intervention, formed natural layers, wrinkles and folds. In many ways, this practice grew out of the work of the pioneering godfather of post-war Italian art, Burri. With his Sacchi, Burri took the structural components of a painting – the burlap ground – and reconstituted this so that it became the entire subject of the work. In the present work, Manzoni has similarly used the anatomical base of a painting – the canvas – and has presented this as the sole physical and visual component of the work, eschewing all other modes of representation. In this way, he achieved his essential artistic and conceptual aims; in his own words: ‘the question as far as I’m concerned is that of rendering a surface completely white (integrally colourless and neutral) far beyond any pictorial phenomenon or any intervention extraneous to the value of the surface. A white that is not a polar landscape, not a material in evolution or a beautiful material, not a sensation or a symbol or anything else: just a white surface that is simply a white surface and nothing else (a colourless surface that is just a colourless surface). Better than that: a surface that simply is: to be (to be complete and become pure)’ (Manzoni, ‘Free Dimension’, Azimuth, no. 2, Milan, 1960, in Piero Manzoni: Paintings, Reliefs & Objects, exh. cat., London, Tate Gallery, 1974, p. 46-47).
Yet, in Achrome, Manzoni has taken Burri’s material realism a step further by removing the hand of the artist from the creation of the work almost entirely, furthering the concept of automatism to instead embody pure chance. The gentle, sometimes sensual folds that gracefully flow horizontally down the surface of the canvas are self-forming; indeed, even the colour itself is there not due to the intervention of the artist, but is instead the inherent hue of the plaster itself. With the inception of this series, Manzoni looked beyond the materiality of Burri’s works, and the austere conceptualism and mystical possibilities of monochrome colour as seen in the works of Fontana or Yves Klein exploring instead the idea of a space freed of any image, colour, mark or material. In this way, he created, ‘Images that are as absolute as possible, images that cannot be valued for that which they record, explain and express, but only for that which they are: to be’ (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, in exh. cat., Piero Manzoni: Paintings, reliefs & objects, London, Tate Gallery, 1974, p. 17).
In questo modo Manzoni diede seguito agli sviluppi pioneristici di Lucio Fontana e di Alberto Burri; creò una forma d'arte radicalmente nuova che era elegante, enigmatica e, al tempo stesso, giocosamente iconoclasta. Capovolgendo le concezioni e le convenzioni tradizionali della pittura, con i suoi Achromes riportò l'arte ad una 'tabula rasa', purificandola e riconducendola alla condizione di ricettacolo aperto, liberato dalla rappresentazione, dalla narrativa e dall'ego dell'artista, in attesa di attivare il pensiero e l'immaginazione del fruitore: 'L'immagine è la nostra idea di libertà', scrisse Manzoni nel 1957, 'nel suo spazio abbiamo intrapreso un viaggio di scoperta e di creazione' (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, citato in M. Gale & R. Miracco, catalogo della mostra, Beyond Painting: Burri. Fontana, Manzoni, Londra, Tate Gallery, 2005-2006, p. 40).
Manzoni fu uno dei più grandi pionieri e provocatori della Milano post-bellica, dove viveva e lavorava, e dove creò il suo primo Achrome nel 1957, un anno prima della probabile realizzazione di questo lavoro. Dopo un'iniziale sperimentazione con il gesso, diede vita a una serie di dipinti nei quali graffiava o segnava l'intonaco bianco; questo lo condusse, nell'autunno dello stesso anno, a concepire gli Achromes. In principio bagnava pezzi di tela nel caolino – una sorta di tenera argilla – che, una volta lasciata asciugare, consentiva di ottenere con il minimo intervento la naturale formazione di spessori, increspature e pieghe. Sotto diversi punti di vista, questa espressione artistica nacque osservando il lavoro di Burri, pioneristico padrino dell'arte italiana del Dopoguerra. Con i suoi Sacchi Burri reinterpretò le componenti strutturali della pittura – la superficie di juta –, tanto che quest'ultima divenne il soggetto stesso del suo lavoro.
Qualcosa di assimilabile avviene in quest'opera di Manzoni, nella quale l'artista usa la base anatomica di un dipinto – la tela – presentandola come la sola componente fisica e visuale dell'opera, e prescindendo tutte le altre modalità di rappresentazione. In questo modo raggiunse il suo obiettivo artistico e concettuale, come egli stesso afferma: 'la vera domanda, per quanto mi riguarda, è quella di rendere una superficie completamente bianca (integralmente senza colore e neutrale) al di là di ogni fenomeno o intervento pittorico estraneo al valore della superficie. Un bianco che non sia un paesaggio polare, non un materiale in evoluzione o un materiale fantastico, non una sensazione, non un simbolo, niente di tutto ciò: solo una superficie bianca che è semplicemente una superficie bianca e nient'altro (una superficie senza colore che è solo una superficie senza colore). Ancor meglio: una superficie che semplicemente esiste: l'essere (essere completa e diventare pura)'. (Manzoni, ‘Free Dimension’, Azimuth, n. 2, Milano, 1960, in Piero Manzoni. Paintings, Reliefs & Objects, catalogo della mostra, Londra, Tate Gallery, 1974, pp. 46-47).
In Achrome Manzoni prende spunto dal realismo materico di Burri e lo porta avanti rimuovendo interamente l'intervento della mano creatrice dell'artista nella realizzazione dell'opera, promuovendo il concetto di automatismo e non quello di pura casualità. Le pieghe delicate, talvolta sensuali, che fluiscono orizzontalmente con eleganza sulla superficie della tela si formano in autonomia; anche la colorazione non è dovuta all'intervento dell'artista: si tratta della tonalità intrinseca dell'intonaco. Nel cimentarsi in questa serie Manzoni guardava oltre la materialità delle opere di Burri, così come al di là del concettualismo austero e trascendente dei lavori monocromi di Fontana o Yves Klein; era mosso dalla volontà di esplorare l'idea di uno spazio liberato da ogni qualsivoglia figura, colore, segno o materiale. In questo modo creò 'immagini che sono tanto assolute quanto possibili, che non possono essere valutate per quello che esprimono, spiegano ed esplicitano, ma solo per quello che sono: il loro essere' (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, nel catalogo della mostra, Piero Manzoni: Paintings, reliefs & objects, Londra, Tate Gallery, 1974, p. 17).
Self-forming, self-reflexive and colourless, Piero Manzoni’s Achrome is one of the earliest works in the artist’s seminal and career-defining series of the same name. Never before seen at auction, and a focus piece in the landmark 2014 retrospective of the artist held in Milan, Achrome (1958 ca.) embodies the captivating purity and monumentality of this group of radical and highly influential works. Like ephemeral ripples of water, windswept undulations of snow, or the folds of a sheet, the softly textured, kaolin covered surface is entirely expunged of any narrative, representational, or mimetic aspects, existing solely as it is. In this way, Manzoni succeeded in furthering the pioneering developments of both Lucio Fontana and Alberto Burri to offer a radically new form of art that was at once elegant and enigmatic, while at the same time, playfully iconoclastic. Overturning the staid, traditional conventions and conceptions of painting, with the Achromes, Manzoni returned art to a ‘tabula rasa’, purifying art to an open receptacle, liberated from representation, narrative and the ego of the artist, waiting instead to be activated by the mind and imagination of the viewer: ‘The picture is our idea of freedom’, Manzoni wrote in 1957, ‘in its space we set out on a journey of discovery and creation of images’ (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, quoted in M. Gale & R. Miracco, exh. cat., Beyond Painting: Burri. Fontana, Manzoni, London, Tate Gallery, 2005-2006, p. 40).
One of the great pioneers and provocateurs living and working in post-war Milan, Manzoni made his first Achrome in 1957, just a year before he is thought to have executed the present work. Experimenting first with the use of gesso, Manzoni had begun a series of paintings in which he scratched or marked the white plaster, leading him, in the autumn of this year, to conceive the Achromes. At first the artist soaked pieces of canvas in kaolin – a soft form of clay – which, when left to set, with the most minimal of intervention, formed natural layers, wrinkles and folds. In many ways, this practice grew out of the work of the pioneering godfather of post-war Italian art, Burri. With his Sacchi, Burri took the structural components of a painting – the burlap ground – and reconstituted this so that it became the entire subject of the work. In the present work, Manzoni has similarly used the anatomical base of a painting – the canvas – and has presented this as the sole physical and visual component of the work, eschewing all other modes of representation. In this way, he achieved his essential artistic and conceptual aims; in his own words: ‘the question as far as I’m concerned is that of rendering a surface completely white (integrally colourless and neutral) far beyond any pictorial phenomenon or any intervention extraneous to the value of the surface. A white that is not a polar landscape, not a material in evolution or a beautiful material, not a sensation or a symbol or anything else: just a white surface that is simply a white surface and nothing else (a colourless surface that is just a colourless surface). Better than that: a surface that simply is: to be (to be complete and become pure)’ (Manzoni, ‘Free Dimension’, Azimuth, no. 2, Milan, 1960, in Piero Manzoni: Paintings, Reliefs & Objects, exh. cat., London, Tate Gallery, 1974, p. 46-47).
Yet, in Achrome, Manzoni has taken Burri’s material realism a step further by removing the hand of the artist from the creation of the work almost entirely, furthering the concept of automatism to instead embody pure chance. The gentle, sometimes sensual folds that gracefully flow horizontally down the surface of the canvas are self-forming; indeed, even the colour itself is there not due to the intervention of the artist, but is instead the inherent hue of the plaster itself. With the inception of this series, Manzoni looked beyond the materiality of Burri’s works, and the austere conceptualism and mystical possibilities of monochrome colour as seen in the works of Fontana or Yves Klein exploring instead the idea of a space freed of any image, colour, mark or material. In this way, he created, ‘Images that are as absolute as possible, images that cannot be valued for that which they record, explain and express, but only for that which they are: to be’ (Manzoni, ‘For the Discovery of a Zone of Images’, in exh. cat., Piero Manzoni: Paintings, reliefs & objects, London, Tate Gallery, 1974, p. 17).