Lot Essay
Massimo Campigli iniziò a dipingere con continuità alla fine degli anni dieci, in parallelo con la sua attività di giornalista, che, nel 1919, lo portò in Francia, dove rimase impressionato dai risultati dell'Ecole de Paris.
Il suo noviziato durò almeno una decina d'anni, durante i quali guardò alle diverse tendenze; fu al cubismo, in realtà , che si rivolse con maggiore attenzione, e che, come ebbe modo di dichiarare lo stesso artista, gli diede lo stimolo a dipingere.
Ma se ne seppe distaccare ben presto: "le forme astratte che il cubismo prese sul finire non mi tentarono sebbene le ammirassi. Non posso fare a meno della figura umana" (Massimo Campigli. Opere dal 1929 al 1971, 21 gennaio - 17 febbraio 1981, Galleria Bergamini, Milano).
La presenza assidua della figura umana, quindi, nelle opere di Campigli, ma in particolare quella della donna: "un imperativo irresistibile a rappresentare innumerevolmente la Donna si confonde in me con quello della creazione artistica stessa. Non v'è scelta, la mia pittura non potrebbe essere altra [...] Continuo a cercare in me stesso assai più che nella realtà l'immagine della Donna, quasi la formula, sotto gli aspetti della Madre, dell'Amante, della Regina e dell'Idolo, animato da ricordi di amori d'infanzia per donne meravigliose in maggior parte viste in dipinti e sculture" (da Carte Segrete, gennaio-marzo 1967).
I luoghi dove Campigli cercava instancabilmente i soggetti, soprattutto femminili, delle sue opere erano i musei, definiti come una delle sue più grandi debolezze, per il fascino enorme e l'influenza irresistibile che esercitarono su di lui fin dall'infanzia.
Campigli si innamorava letteralmente delle statue che poteva ammirare in questi luoghi, e le rielaborava nella sua fantasia quasi fossero delle eterne prigioniere: come all'interno del museo, dietro ai vetri, etichettate, intoccabili. E divine, o per lo meno regali, allo stesso tempo.
E ancora, Campigli è attratto, stregato, assediato dal fascino della solennità, dell'immobilità, dell'essere fuori da un tempo e da uno spazio pratici, reali, immediati: questo è per lui il museo.
Sicchè il museo non è più un luogo, uno spazio, ma una condizione, un modo di essere: come si vede nell'opera inedita qui proposta, dove il mondo della figura fuori dal tempo, delle figura incasellate, fermate, intoccabili, produce quella fascinazione e quel desiderio che diventano attenzione e sensibilit; uno sguardo, quindi, che penetra un tempo diverso, misterioso e lontano. Ed è proprio all'interno di questa condizione che la donna pu essere identificata con la statua, nella regalità che si rivela negli sguardi, nei muti comportamenti, in un ignoto galateo senza parole e senza movimenti.
L'altra novità ed invenzione di Campigli in opposizione all'avanguardia del movimento cubista astrattista è la propensione decisa per un gusto primitivo e figurativo. Le conseguenze stilistiche di questa scelta artistica, come dimostra quest'opera, furono il trattamento della materia come fosse affresco - anche se tecnicamente dipinse ad olio - tecnica assai adatta a togliere la grevità della carne alle figure. (AA.VV. Omaggio a Campigli, Roma 1972, p. 24) Scopre Campigli, nell'emulare l'affresco, come lo spettacolo assorba l'attenzione, trascini al proprio interno lo spettatore, lo ammutolisca e imprigioni, e lo faccia transitare per quella via su una scena segreta e affascinante, ma ricca poi di sottofondi, di tensioni, proliferante e corposa.
Nascono, quindi, le madri delle successive immagini di Campigli caratterizzate da visi e silhouettes volte di schiena, con cavalli e ringhiere, finestre ed anfore, Donne che si stagliano su un fondo di deserto, in una piena luce solare, di sabbia: "Quando composi, ai primi passi della mia pittura la mia tavolozza, preferii le "terre". Questo nome di terre mi piaceva per ragioni poetiche, mentre trovavo antipoetiche le denominazioni dei colori chimici. Era poi il tempo della mia grande austerità, e una tavolozza povera mi sembrava consona alla mia sobrietà e al mio orgoglio" (AA.VV. Omaggio a Campigli, Roma 1972, p. 18).
In un testo del 1941 (Campigli e i busti, edito a Venezia) lo stesso pittore si preoccupa di fornire una chiave di interpretazione di questa codificazione formale. Non è un caso, dice, se le sue figure sono anfore, clessidre, chitarre, perchè cerca "di rappresentare la donna nel suo archetipo, nelle sue costanti nella sua forma di ieri e di oggi".
Basta, infine, uno sguardo alle tele di Campigli per coglierne una disposizione scenografica, un prisma rispetto al quale si colloca in posizione centrale, non solo per guardare, come un sovrano, che cosa accada, o chi vi sia, ma per partecipare, nello sguardo, di una vita misteriosa, di un alveare incredibilmente animato.
Se la forma al femminile, stilizzata e ripetuta, è nota a chiunque abbia visto tele e disegni di Campigli, non meno evidente è quel particolare invaso dello spazio, a prisma e a sfaccettature ribattute come un teatro tutto schiacciato sul palcoscenico da cui lo si guarda.
Un'arte moderna e insieme fuori dal tempo, per quell'atmosfera arcaica, che dona ai suoi personaggi un alone di maestosa e imperturbabile solennità: è questo lo stile inconfondibile di Campigli, sapiente dosaggio di vari elementi, primo fra tutti la famosa folgorazione avvenuta nel 1928, quando rimase impressionato dalle pitture etrusche esposte a Villa Giulia a Roma: "l'influenza che subii più
a lungo fu quella dell'arte etrusca che nel 1928 diede una svolta alla mia pittura.
Amai questa umanità piccola sorridente e che fa sorridere. Trovai invidiabile il sonno beato sui sarcofagi di queste altre odalische di terracotta e il modo di essere morte.
Nei miei quadri entrò una pagana felicità tanto nello spirito dei soggetti che nello spirito del lavoro che si fece più libero e lirico..."
"Per quasi trent'anni è stato il mio compagno silenzioso. Più che le parole ha usato l'esempio per farmi comprendere alcune cose. Per esempio che è importante vivere in pace con se stessi e con la propria coscienza. Mai, sosteneva, accettare compromessi per adattarsi al mondo che ci circonda. Posso affermare che mio padre, come uomo, era riuscito pienamente a realizzare questa sua morale. E suo costante "Scrupolo" era di riportare questa pace nella sua pittura. Campigli collezionava l'arte primitiva della Nuova Guinea, le sculture Ibo e i vasi precolombiani. Amava l'arte dell'antico Egitto e quella etrusca. Era attratto, con delle preferenze dettate da un suo gusto ben marcato, da tutto ciò che l'espressione dell'Uomo nella sua atemporaneità ". (Nicola Campigli, in Massimo Campigli, cit.).
Il suo noviziato durò almeno una decina d'anni, durante i quali guardò alle diverse tendenze; fu al cubismo, in realtà , che si rivolse con maggiore attenzione, e che, come ebbe modo di dichiarare lo stesso artista, gli diede lo stimolo a dipingere.
Ma se ne seppe distaccare ben presto: "le forme astratte che il cubismo prese sul finire non mi tentarono sebbene le ammirassi. Non posso fare a meno della figura umana" (Massimo Campigli. Opere dal 1929 al 1971, 21 gennaio - 17 febbraio 1981, Galleria Bergamini, Milano).
La presenza assidua della figura umana, quindi, nelle opere di Campigli, ma in particolare quella della donna: "un imperativo irresistibile a rappresentare innumerevolmente la Donna si confonde in me con quello della creazione artistica stessa. Non v'è scelta, la mia pittura non potrebbe essere altra [...] Continuo a cercare in me stesso assai più che nella realtà l'immagine della Donna, quasi la formula, sotto gli aspetti della Madre, dell'Amante, della Regina e dell'Idolo, animato da ricordi di amori d'infanzia per donne meravigliose in maggior parte viste in dipinti e sculture" (da Carte Segrete, gennaio-marzo 1967).
I luoghi dove Campigli cercava instancabilmente i soggetti, soprattutto femminili, delle sue opere erano i musei, definiti come una delle sue più grandi debolezze, per il fascino enorme e l'influenza irresistibile che esercitarono su di lui fin dall'infanzia.
Campigli si innamorava letteralmente delle statue che poteva ammirare in questi luoghi, e le rielaborava nella sua fantasia quasi fossero delle eterne prigioniere: come all'interno del museo, dietro ai vetri, etichettate, intoccabili. E divine, o per lo meno regali, allo stesso tempo.
E ancora, Campigli è attratto, stregato, assediato dal fascino della solennità, dell'immobilità, dell'essere fuori da un tempo e da uno spazio pratici, reali, immediati: questo è per lui il museo.
Sicchè il museo non è più un luogo, uno spazio, ma una condizione, un modo di essere: come si vede nell'opera inedita qui proposta, dove il mondo della figura fuori dal tempo, delle figura incasellate, fermate, intoccabili, produce quella fascinazione e quel desiderio che diventano attenzione e sensibilit; uno sguardo, quindi, che penetra un tempo diverso, misterioso e lontano. Ed è proprio all'interno di questa condizione che la donna pu essere identificata con la statua, nella regalità che si rivela negli sguardi, nei muti comportamenti, in un ignoto galateo senza parole e senza movimenti.
L'altra novità ed invenzione di Campigli in opposizione all'avanguardia del movimento cubista astrattista è la propensione decisa per un gusto primitivo e figurativo. Le conseguenze stilistiche di questa scelta artistica, come dimostra quest'opera, furono il trattamento della materia come fosse affresco - anche se tecnicamente dipinse ad olio - tecnica assai adatta a togliere la grevità della carne alle figure. (AA.VV. Omaggio a Campigli, Roma 1972, p. 24) Scopre Campigli, nell'emulare l'affresco, come lo spettacolo assorba l'attenzione, trascini al proprio interno lo spettatore, lo ammutolisca e imprigioni, e lo faccia transitare per quella via su una scena segreta e affascinante, ma ricca poi di sottofondi, di tensioni, proliferante e corposa.
Nascono, quindi, le madri delle successive immagini di Campigli caratterizzate da visi e silhouettes volte di schiena, con cavalli e ringhiere, finestre ed anfore, Donne che si stagliano su un fondo di deserto, in una piena luce solare, di sabbia: "Quando composi, ai primi passi della mia pittura la mia tavolozza, preferii le "terre". Questo nome di terre mi piaceva per ragioni poetiche, mentre trovavo antipoetiche le denominazioni dei colori chimici. Era poi il tempo della mia grande austerità, e una tavolozza povera mi sembrava consona alla mia sobrietà e al mio orgoglio" (AA.VV. Omaggio a Campigli, Roma 1972, p. 18).
In un testo del 1941 (Campigli e i busti, edito a Venezia) lo stesso pittore si preoccupa di fornire una chiave di interpretazione di questa codificazione formale. Non è un caso, dice, se le sue figure sono anfore, clessidre, chitarre, perchè cerca "di rappresentare la donna nel suo archetipo, nelle sue costanti nella sua forma di ieri e di oggi".
Basta, infine, uno sguardo alle tele di Campigli per coglierne una disposizione scenografica, un prisma rispetto al quale si colloca in posizione centrale, non solo per guardare, come un sovrano, che cosa accada, o chi vi sia, ma per partecipare, nello sguardo, di una vita misteriosa, di un alveare incredibilmente animato.
Se la forma al femminile, stilizzata e ripetuta, è nota a chiunque abbia visto tele e disegni di Campigli, non meno evidente è quel particolare invaso dello spazio, a prisma e a sfaccettature ribattute come un teatro tutto schiacciato sul palcoscenico da cui lo si guarda.
Un'arte moderna e insieme fuori dal tempo, per quell'atmosfera arcaica, che dona ai suoi personaggi un alone di maestosa e imperturbabile solennità: è questo lo stile inconfondibile di Campigli, sapiente dosaggio di vari elementi, primo fra tutti la famosa folgorazione avvenuta nel 1928, quando rimase impressionato dalle pitture etrusche esposte a Villa Giulia a Roma: "l'influenza che subii più
a lungo fu quella dell'arte etrusca che nel 1928 diede una svolta alla mia pittura.
Amai questa umanità piccola sorridente e che fa sorridere. Trovai invidiabile il sonno beato sui sarcofagi di queste altre odalische di terracotta e il modo di essere morte.
Nei miei quadri entrò una pagana felicità tanto nello spirito dei soggetti che nello spirito del lavoro che si fece più libero e lirico..."
"Per quasi trent'anni è stato il mio compagno silenzioso. Più che le parole ha usato l'esempio per farmi comprendere alcune cose. Per esempio che è importante vivere in pace con se stessi e con la propria coscienza. Mai, sosteneva, accettare compromessi per adattarsi al mondo che ci circonda. Posso affermare che mio padre, come uomo, era riuscito pienamente a realizzare questa sua morale. E suo costante "Scrupolo" era di riportare questa pace nella sua pittura. Campigli collezionava l'arte primitiva della Nuova Guinea, le sculture Ibo e i vasi precolombiani. Amava l'arte dell'antico Egitto e quella etrusca. Era attratto, con delle preferenze dettate da un suo gusto ben marcato, da tutto ciò che l'espressione dell'Uomo nella sua atemporaneità ". (Nicola Campigli, in Massimo Campigli, cit.).