Lot Essay
"Lo schermo, discreto, attende le immagini, quasi omettendo di proporre di diritto la propria. Non è enigmatico, semmai nascosto. La sua attesa è molto esperta: sa di contenere. Non afferma. Lascia che su di sè si affermi. Stringe il senso dentro di sè. Lo schermo è una pittura nascosta in un oggetto reale...è un'affermazione complessa presentata come elementare"
(Fabio Mauri)
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta alcuni quadri non desiderano più essere quadri, voglio diventare oggetti. Emendati dall'espressività informale con il loro quasi ascetico antipittoricismo con stesure lisce, compatte, spazi purificati dall'emotività, dalla matericità e capaci invece di riflettere, a un loro grado zero, sui codici della comunicazione estetica, gli schermi di Mauri anticipano i monocromi di Schifano, e se ne
distinguono scavalcandone la sensualità pop in una specie di raggelante preveggenza minimal.
Infatti lo schermo non ricopre di sé il mondo. Né è una materia a cui lo riduce. Il suo intento, minimo o smisurato, è di contenerlo "velandolo". (...) è la continuità del diaframma esiguo tra il dentro e il fuori.
Gli schermi attraversano, scandiscono tutta l'opera di Mauri. Come quelli più piccoli degli inizi, gli scermi ingranditi dei Settanta continuano, con ancor più pertinenza forse, ad alludere a schermi di proiezione, e come tali compaiono in installazioni e performance. È tuttavia difficile sottrarsi alla sensazione che essi si presentino soprattutto come pause, silenzi, gesti di negazione e purificazione linguistica e (dunque) spirituale.
(Marco Di Capua, in Novecento. Arte e Storia in Italia, cat. mostra Scuderie Papali al Quirinale, Roma 2000-2001, p. 524)
(Fabio Mauri)
Tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta alcuni quadri non desiderano più essere quadri, voglio diventare oggetti. Emendati dall'espressività informale con il loro quasi ascetico antipittoricismo con stesure lisce, compatte, spazi purificati dall'emotività, dalla matericità e capaci invece di riflettere, a un loro grado zero, sui codici della comunicazione estetica, gli schermi di Mauri anticipano i monocromi di Schifano, e se ne
distinguono scavalcandone la sensualità pop in una specie di raggelante preveggenza minimal.
Infatti lo schermo non ricopre di sé il mondo. Né è una materia a cui lo riduce. Il suo intento, minimo o smisurato, è di contenerlo "velandolo". (...) è la continuità del diaframma esiguo tra il dentro e il fuori.
Gli schermi attraversano, scandiscono tutta l'opera di Mauri. Come quelli più piccoli degli inizi, gli scermi ingranditi dei Settanta continuano, con ancor più pertinenza forse, ad alludere a schermi di proiezione, e come tali compaiono in installazioni e performance. È tuttavia difficile sottrarsi alla sensazione che essi si presentino soprattutto come pause, silenzi, gesti di negazione e purificazione linguistica e (dunque) spirituale.
(Marco Di Capua, in Novecento. Arte e Storia in Italia, cat. mostra Scuderie Papali al Quirinale, Roma 2000-2001, p. 524)